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Qatar 2022

Ma quale Blatter, il primo Mondiale in Iraq l'ha voluto Rumsfeld

Marco Bardazzi

Vent'anni fa a Doha fu inaugurato non un campo da calcio, bensì Camp As Sayliyah, la base militare americana dalla quale l’Amministrazione Bush condusse l’invasione dell’Iraq

I primi Mondiali in Qatar non li ha organizzati la Fifa di Sepp Blatter e Michel Platini, ma il Pentagono di Donald Rumsfeld. L’apertura al mondo del piccolo emirato non è cominciata nel 2010, quando fu scelto a sorpresa per ospitare le partite che in questi giorni seguiamo in tv, ma nell’inverno del 2002. Vent’anni fa esatti, quando a Doha fu inaugurato non un campo da calcio, bensì Camp As Sayliyah, la base militare americana dalla quale l’Amministrazione Bush condusse l’invasione dell’Iraq.

 

Fu un “mondiale” perché l’allora semisconosciuto Qatar divenne la sede avanzata dal Centcom, il Comando centrale delle forze armate statunitensi, e una sorta di sala stampa planetaria per i media che raccontavano l’attacco a Saddam Hussein. Fu quell’evento, una guerra, a segnare la definitiva entrata in scena sul palcoscenico internazionale della dinastia regnante degli al Thani e a creare le premesse per costruire, qualche anno dopo, anche la candidatura a ospitare la massima competizione calcistica planetaria. Centinaia di giornalisti e le troupe di tutti i network mondiali calarono in forze all’inizio del 2003 su Doha – un po’ come oggi – per raccontare da dentro una base militare nel deserto i briefing del Pentagono guidati dal generale Tommy Franks, il comandante dell’invasione. Fu un grande test per gli allora semideserti Hilton, Sheraton e Marriott affacciati sulla Corniche di Doha e per un paese che stava cercando di rincorrere l’ascesa e gli splendori dei vicini Abu Dhabi, Dubai e Bahrain. 

 

Oggi la base e il vicino, gigantesco aeroporto militare americano di Al Udeid sono diventati poco più di depositi logistici per il Centcom, dopo aver vissuto un nuovo momento di frenetica e drammatica attività nell’estate 2021, per ospitare i profughi afghani evacuati dall’aviazione americana a Kabul. L’area industriale di Doha li ha raggiunti e inglobati e il silenzio nelle basi militari fa da contraltare alle grida dei tifosi in un paio di stadi del Mondiale che sorgono non lontani.

 

Vent’anni fa la scena era assai diversa. La capitale del Qatar copriva meno della metà della superficie attuale e l’emirato stava ancora cercando di decidere come investire i miliardi di dollari che cominciavano ad arrivare dalla vendita degli enormi giacimenti di gas scoperti nel 1971. Prima di puntare al calcio, i leader locali pensarono di attrarre gli americani, offrendo loro una postazione strategica nel Golfo. I vicini del Bahrain si erano già aggiudicati la base delle forze navali del Centcom. Gli altri vicini dell’Arabia Saudita non volevano più saperne di militari Usa sul loro territorio, dopo aver scatenato le ire degli integralisti islamici (e aver praticamente provocato la nascita di al Qaida), per la scelta di ospitare nel paese sacro dell’Islam le forze di invasione americane nella Guerra del Golfo del 1991.

 

I qatarioti colsero al volo l’opportunità e regalarono al Pentagono un pezzo di deserto per farne la base aerea di Al Udaid. Dopo l’attacco all’America dell’11 settembre 2001, il Centcom fece del Qatar la rampa di lancio dei voli per andare all’attacco dell’Afghanistan e la Casa Bianca di George W.Bush, insieme al Pentagono di Rumsfeld, individuò in Doha il partner ideale per costruire quella che apparve subito come una lunga guerra al terrorismo. Quando nel settembre 2002 l’attenzione dell’amministrazione Bush si spostò dall’Afghanistan, ormai liberato dai talebani, all’Iraq di Saddam Hussein, la città che oggi ospita la festa del calcio mondiale fu scelta come avamposto perfetto per preparare la seconda Guerra del Golfo. Non era un’opzione scontata, perché in Qatar – allora molto più di oggi – la presenza degli integralisti islamici filo al Qaida era forte e il governo finanziava uno dei network tv più critici al mondo con gli Stati Uniti, Al Jazeera.

 

Vent’anni fa in questi giorni fu allestita una modernissima base americana in mezzo al nulla alla periferia di Doha. Fu chiamata Camp As Sayliyah e ben presto fu organizzata per ospitare un’intera brigata motorizzata, con oltre un centinaio di tank Abrams M-1 e qualche altro centinaio di blindati Bradley e veicoli da combattimento. Ma fu costruito soprattutto un centro di comando supertecnologico e dotato di tutti i comfort (piscine e campi da tennis inclusi), nel quale si trasferirono i vertici del Centcom da Tampa, in Florida, per cominciare a organizzare l’invasione.

 

Quando nel marzo 2003 arrivarono i giornalisti invitati dal Pentagono a seguire la guerra, il “mondiale” era pronto a cominciare. Il campo da gioco, dentro As Sayliyah, era soprattutto una sala conferenze con un palco da due milioni di dollari allestito da scenografi arrivati da Hollywood. Cinque maxischermi al plasma facevano da sfondo ai briefing militari e un piccolo esercito di ufficiali-addetti stampa cercava di “guidare la narrazione” della guerra, come si direbbe oggi. Alcuni ufficiali britannici, costretti dalle scelte di Tony Blair a fare da spalla agli americani, dispensavano scetticismo tra i media e facevano da sano contraltare alla versione di una guerra asettica ed efficiente che veniva promossa dal Pentagono.

 

Tommy Franks, un generale texano vicino di casa del ranch di Bush a Midland, guidava via computer un’armata di 280 mila persone che qualche centinaio di chilometri più a nord si faceva strada sulla via per Baghdad. Nel deserto iracheno, i 18 mila militari della 101° Divisione aviotrasportata, guidati da un generale che avrebbe fatto strada, David Petraeus, erano la punta avanzata delle operazioni condotte dalla base costruita alla periferia di Doha. 

 

Dal punto di vista militare, l’invasione fu un successo. Gli al Thani incassarono la gratitudine e i miliardi degli americani e cominciarono a costruire un percorso per il futuro, quella che sarebbe stata battezzata la Qatar National Vision 2030. I Mondiali di calcio, ottenuti nel 2010 con una selezione che è finita al centro di molteplici inchieste giudiziarie, ne sono il fulcro. I 220 miliardi di dollari investiti dagli emiri – una cifra enormemente superiore a qualsiasi altra coppa del mondo – serviranno a cambiare definitivamente il volto del paese, cercando di costruire un futuro basato un po’ più sul turismo e un po’ meno sulle riserve di gas, che comunque continueranno a portare centinaia di miliardi l’anno fino a un picco per ora previsto nel 2027.

 

Un lungo cammino cominciato vent’anni fa, quando la penisola proiettata sul Golfo decise di trasformarsi in una rampa di lancio per i bombardieri statunitensi.