Bolsonaro ha detto: “O vinco, o mi arrestano, o mi ammazzano”. Cosa può fare ora che ha perso

Cecilia Sala

Il presidente delle “tre B” (bible, beef, bullets) piace ai poliziotti, ma non ai generali.  I suoi sostenitori (armati) gli chiedono di rispettare la sua promessa di non andarsene mai    

Domenica sera, poco prima delle 23 (ora italiana),  lo spoglio elettorale in Brasile aveva raggiunto quasi la metà delle schede e il presidente uscente Jair Bolsonaro era ancora dato in testa. Pochi minuti dopo è arrivata l’inversione: Luiz Inácio “Lula” da Silva al 50,01 per centro, Bolsonaro al 49,9. E’ finita 50,9  a 49,1  e Bolsonaro ha perso, ma di pochissimo. Quattro mesi fa si era riferito  alle elezioni con queste parole: “Se sarà necessario, andremo in guerra”. Un anno fa aveva detto che le presidenziali sarebbero potute  finire solo in tre modi: “O vinco, o mi arrestano, o mi ammazzano”. 


Le istituzioni democratiche brasiliane non sono fragili come quelle, per esempio, boliviane, e in pochi  credono che oggi esista la possibilità di un colpo di stato appoggiato dai militari, anche se i sostenitori di Bolsonaro vengono comunemente sintetizzati con la formula delle “tre B”: bible (gli evangelici), beef (i proprietari di bestiame e i lavoratori degli allevamenti, soprattutto quelli amazzonici) e poi bullets, cioè proprio la polizia e l’esercito. E’ vero che Bolsonaro ha il sostegno di molti ufficiali militari e poliziotti (alcuni dei quali ieri, nel nord est dove Lula è storicamente più forte e a Rio de Janeiro, hanno bloccato degli elettori mentre andavano ai seggi), ma l’ex presidente piace meno alle gerarchie dell’esercito e difficilmente dei generali si farebbero guidare “da un semplice ex capitano d’artiglieria” come Bolsonaro in un progetto tanto avventuroso. Le parole tra virgolette sono del giudice Luís Roberto Barroso, che ha  sintetizzato bene la situazione  ricordando che: “L’ultimo colpo di stato in Brasile è avvenuto nel 1964 ed era sostenuto dalla classe media, dagli uomini d’affari, dagli Stati Uniti e dalla stampa: nessuno di questi soggetti sosterrebbe un colpo di stato oggi”. 


Due anni fa ci fu anche una riunione segreta  dei capi della Marina, dell’Aeronautica e dell’esercito brasiliano in cui si era discusso di come riportare Bolsonaro su posizioni ragionevoli e anche dell’ipotesi di “commissariarlo”, cioè deporlo o costringerlo a eseguire gli ordini di quello che sarebbe presto diventato il capo del suo staff e poi il nuovo ministro della Difesa (il generale Walter Braga Netto, presente alla riunione). Era la fase in cui il Brasile era l’epicentro della pandemia da Covid e secondo per numero di morti solo agli Stati Uniti d’America: Bolsonaro era il capo di stato più negazionista al mondo. 
Il problema non è mai stato l’improbabile alleanza tra il presidente uscente e le Forze armate per ribaltare il risultato elettorale, ma i sostenitori (compresi quelli armati) di Bolsonaro che non si fidano del sistema elettorale brasiliano. Negli ultimi otto anni – con l’unica esclusione del 2018, l’anno in cui ha vinto le elezioni – Bolsonaro ha fomentato la teoria secondo cui il voto in Brasile viene continuamente manomesso e ancora il 28 ottobre aveva detto: “Il sistema è contro di me”. Oggi tre sostenitori dell’ex presidente su quattro dicono di non fidarsi non solo del risultato di queste presidenziali, ma di qualsiasi elezione si sia tenuta in Brasile da quando è finita la dittatura militare nel 1985.  


Il Brasile è l’unico paese al mondo ad avere un sistema elettorale integralmente elettronico, dove non esiste alcuna controprova fisica di un voto. Un riconteggio sarebbe estremamente più difficile che altrove e, in ogni caso, non farebbe finire le contestazioni. Perché si potrebbero escludere le intromissioni nel sistema,  rilevare  l’insussistenza  di frodi, ma sarebbe impossibile – invertendo l’onere della prova – dimostrare che il risultato comunicato   sia anche  quello corretto.
Alle 20.30 di ieri, Bolsonaro non aveva ancora riconosciuto la vittoria di Lula. Come negli Stati Uniti, rimarrà presidente fino all’insediamento del suo successore a gennaio e, da trentasei ore, davanti al palazzo presidenziale  i suoi sostenitori  pregano, piangono, e gli chiedono di mantenere la promessa che sarebbe rimasto a ogni costo. Alcuni, come la milizia di estrema destra “300 do Brasil”, sono armati e da due anni si addestrano in previsione di questo momento.

 

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