Il Watergate, il 6 gennaio, la guerra. Quanto costa in occidente la cultura dell'impunità

Paola Peduzzi

Uno scandalo che travolse Nixon e i suoi collaboratori ma che costrinse gli americani tutti a ripensarsi e a ripensare i concetti di legittimità e  impunità. Trump nelle tv e le reti di protezione delle democrazie coi buchi

Milano. “Se il vicepresidente degli Stati Uniti avesse obbedito al presidente degli Stati Uniti, l’America sarebbe immediatamente sprofondata in una rivoluzione all’interno di una crisi costituzionale paralizzante”, ha detto il giudice americano Michael Luttig con parole chiare e lente testimoniando alle audizioni in diretta tv della commissione del Congresso che indaga sull’assalto al Campidoglio, del 6 gennaio del 2021. Luttig ha lavorato alla Casa Bianca di Reagan e di Bush padre, ha lavorato con il giudice della Corte suprema Antonin Scalia,  è stato nominato alla Corte d’appello da Bush padre, è stato il mentore del senatore texano Ted Cruz (così ha detto lo stesso Cruz: “E’ stato come un padre per me”) e anche il capo di John Eastman, l’avvocato che ha cercato di trovare, o meglio di inventare, le basi legali per ribaltare l’esito delle elezioni del 2020 e per costringere il vicepresidente Mike Pence a non certificare al Congresso la vittoria di Joe Biden.

 

“Non parlo con leggerezza”, ha detto Luttig lentissimo (ha avuto un infarto pochi mesi fa) e per questo ancora più potente: il presidente Trump e i suoi sostenitori “sono un pericolo chiaro e presente per la democrazia americana”. Il senso di queste audizioni, che si incrociano con i cinquant’anni dall’arresto di cinque uomini che si erano intrufolati con microfoni e macchine fotografiche negli uffici del Partito democratico  al Watergate, è tutto qui: nel pericolo ancora presente e attuale per la democrazia americana, e nella responsabilità che la classe dirigente ha perché questo pericolo sia eliminato. Mancano ancora quattro giornate di audizioni e parallelamente ai lavori della commissione congressuale c’è l’inchiesta del dipartimento di Giustizia, che ha già arrestato e sta processando oltre 900 persone che hanno partecipato all’insurrezione. A ogni diretta tv si aggiungono dettagli e responsabilità, ma questa inchiesta va oltre il ruolo di Trump e dei trumpiani. Il pubblico rilevante di questo show non è quello dei democratici né quello del cosiddetto “Maga”, i seguaci di Trump: questo pubblico ha già le sue convinzioni, opposte e inconciliabili, ma ce le ha.

 

Sono gli altri, quelli che chiamiamo indipendenti o che gli americani chiamano genericamente “middle”, che contano. I processi indicheranno colpevoli e pene, ma per annientare il pericolo attuale e presente, come lo definisce il giudice Luttig, è necessaria una responsabilizzazione collettiva che riguarda la coscienza del popolo americano. Proprio come accadde con il Watergate, che fu uno scandalo che travolse Nixon e i suoi collaboratori ma che costrinse gli americani tutti a ripensarsi e a ripensare i concetti di legittimità e  impunità. Chi ha permesso a questi presidenti di mettere in opera meccanismi sovversivi tanto efficaci? Chi ha scommesso, oltre ai presidenti stessi, sulla possibilità di farla franca? Sono questi gli elementi che costituiscono le reti di protezione delle democrazie senza le quali ogni sistema rappresentativo diventa vulnerabile. La legittimità si misura solitamente durante i processi elettorali: l’America va al voto a novembre e il movimento trumpiano ha messo in piedi una campagna di cannibalismo tra repubblicani che sta ottenendo risultati altalenanti, ma alcuni li sta ottenendo. Se il prossimo Congresso che uscirà dal voto di metà mandato sarà anche solo mezzo o un quarto pieno di trumpiani, vuol dire che nonostante le prove, le testimonianze, le inchieste e i processi,  la rete di protezione della democrazia americana sarà ancora bucata. 

 

L’impunità al contrario è meno misurabile, fa parte di una certa cultura del potere: ne discutiamo molto quando parliamo degli autocrati o in questi mesi della guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina. Nel 2014, quando la campagna di conquista ucraina è iniziata, il presidente russo ha pensato di averla fatta franca: qualche sanzione, qualche condanna, un po’ di isolamento, ma a fronte di una regione annessa (la Crimea, senza la quale l’invasione di febbraio sarebbe stata un disastro completo) e di un territorio occupato. L’impunità ha reso Putin più aggressivo: nelle democrazie, il meccanismo è lo stesso, la maglia della rete di protezione s’allarga, e da quei buchi cadiamo tutti.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi