Pirati del Mar d'Azov

“I russi dicono che è una nazionalizzazione, ma è un furto. Se la sono rubata"

Luciano Capone

“Non ho mai visto nulla del genere in vita mia", dice Augusto Cosulich, armatore italiano proprietario della nave carica di acciaio sequestrata dalle milizie di Donetsk a Mariupol. "È una ritorsione contro l'Italia per l'aiuto all'Ucraina"

Solo qualche giorno fa il leader della Lega Matteo Salvini esultava per l’annuncio del ministero della Difesa russo della prima nave “carica di metallo” che usciva dal porto di Mariupol: “Bene, le armi più potenti sono dialogo e diplomazia, l’impegno per la Pace vale più di qualsiasi critica”, aveva twittato nella sua nuova versione irenista. Salvini si fidava della propaganda del Cremlino senza rendersi conto, come pure avevano detto le autorità ucraine, che i russi stavano semplicemente impadronendosi delle navi e razziando gli impianti siderurgici della città. Esattamente ciò che è successo a una nave italiana, carica di acciaio, rubata dalle milizie filorusse che controllano l’oblast di Donetsk.

 

“Hanno detto che è una nazionalizzazione, ma in realtà è un furto. Se la sono rubata”, dice al Foglio Augusto Cosulich, discendente di una storica famiglia di armatori, presidente della Fratelli Cosulich, società triestina ma con sede a Genova che fa un miliardo e mezzo di fatturato. “Prima di tutto voglio dire che nel nostro caso si tratta solo di soldi – premette Cosulich –. Le cose importanti sono altre, sono i poveretti che muoiono sotto le bombe senza nessun motivo”. Ma i soldi in ballo non sono neppure pochi, perché si tratta di una nave dal valore di 9 milioni di euro con un carico di acciaio da 12 milioni di euro destinato all’industria siderurgica italiana. “Sono 15 mila tonnellate di bramme di acciaio destinate alle Officine Tecnosider, a San Giorgio di Nogaro, dove con altri soci lavoriamo 400 mila tonnellate di lamiere da treno ogni anno”. 

 

E rispetto a quello che, a tutti gli effetti, è un atto di pirateria non c’è assicurazione che tenga. “No, le assicurazioni non ti coprono se sulla nave sale il battaglione Wagner e se la prende”, dice Cosulich. La “Tzarevna”, questo il nome del mercantile, era una delle navi della flotta della Vulcania, società sempre dei Cosulich, che dall’acciaieria ucraina Azovstal portava lamiere per il polo siderurgico friulano di San Giorgio, dove oltre a Tecnosider ci sono Marcegaglia e Metinvest. “La Tzarevna – dice Cosulich al Foglio – era a Mariupol, aveva finito di caricare, ma poi è scoppiata la guerra ed è rimasta lì perché il porto era minato. C’è un equipaggio di cinque bulgari. La nave aveva viveri e in questi tre mesi era diventata una specie di centro di accoglienza, un rifugio per gli equipaggi delle altre navi bloccate”. E poi cos’è successo? “È difficile da spiegare, anche perché è difficile comunicare e non si sa bene con chi si parla. Ma si è presentato qualcuno a nome di questa repubblica di Donetsk notificando una ‘nazionalizzazione’. In sostanza è un furto”.

 

È diverso dai sequestri degli yacht degli oligarchi russi fatti in Italia? “Certo. Da noi sono stati sequestrati, ma rimangono di proprietà. Qui si portano via la nave e basta. Nella mia vita, e un po’ di esperienza ce l’ho, non ho mai sentito nulla del genere”. Sul caso si stanno muovendo le autorità di Malta, visto che la nave era registrata lì, e anche il governo italiano. Per il momento la nave è ferma. “Ma ciò che non capisco – dice Cosulich – è cosa possano farsene. Quella nave è troppo grande per girare nel mare d’Azov e se va in qualsiasi porto del mondo, dove esiste la legge, gliela faccio portare via”. E allora? “L’unica cosa che capisco, l’unica ragione che posso darmi, è che si tratta di una ritorsione contro l’Italia per l’aiuto all’Ucraina. Ce l’hanno con l’Italia e si rifanno sugli imprenditori italiani”.

 

Insomma, più che un atto di “dialogo e diplomazia” si tratta di una rappresaglia. “Siamo in una logica dove la forza prevale sulla legge. Ma ripeto, non enfatizzerei troppo questo caso, si tratta solo di soldi. Il dramma della guerra è altro”.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali