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I limiti del “realismo offensivo” che accusa l'occidente per la crisi in Ucraina 

Andrea Gilli e Mauro Gilli

La teoria di John Mearsheimer è interessante, ma ha diversi problemi. Per lo studioso non c’è spazio per la leadership, le istituzioni politiche e la politica interna. Ecco perché non possiamo considerare la sua lettura accurata e inoppugnabile

Il dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina vede spesso citato John Mearsheimer, docente di relazioni internazionali all’Università di Chicago che nel 2014 ha scritto un articolo su Foreign Affairs la cui tesi – riproposta la scorsa settimana sull’Economist e con un’intervista al New Yorker – è che espandendo la Nato e l’Unione europea, l’Occidente liberale si è spinto ai confini della Russia, di fatto provocandone la reazione. Premettiamo di conoscere John Mearsheimer, di cui abbiamo stima non solo professionale, ma anche personale: in un mondo accademico nel quale cortesia e gentilezza scarseggiano,  Mearsheimer si distingue anche per il supporto che offre a ricercatori più giovani. In questo articolo, vogliamo spiegare la sua parabola intellettuale  ed evidenziare alcune criticità della sua tesi.

 

La teoria delle relazioni internazionali si divide in tre grandi filoni: il realismo, per cui conta principalmente la forza; il liberalismo, per cui contano le istituzioni politiche e le preferenze degli attori; e il costruttivismo, per cui sarebbero le idee a trainare il mondo.  Mearsheimer è venuto alla ribalta studiando la deterrenza convenzionale negli anni Ottanta. Il suo trionfo accademico è arrivato però più tardi, con due articoli scritti negli anni Novanta. Il primo, un lavoro divulgativo pubblicato su The Atlantic, descriveva cupi scenari di conflitto armato in Europa a seguito della fine della Guerra fredda; il secondo, un articolo accademico sulla rivista International Security, argomentava che le istituzioni internazionali – fossero esse formali, come l’Onu, o informali, come le norme – non avrebbero evitato il ritorno della competizione fra Grandi Potenze.

 

Poco prima dell’11 settembre, nella monografia “The tragedy of Great Power politics”, Mearsheimer elaborò in maniera più articolata le sue idee attraverso la sua teoria del “realismo offensivo”. Secondo Mearsheimer, per comprendere gli ultimi 150 anni di politica internazionale basta partire da cinque assunti: il sistema internazionale è anarchico, dunque non vi è alcuna autorità politica sopra agli stati nazionali; le grandi potenze hanno capacità militari offensive; gli stati non possono mai essere sicuri delle intenzioni altrui, presenti e future; la sopravvivenza è l’obiettivo principale delle grandi potenze; e queste ultime sono attori razionali. A questi assunti, Mearsheimer aggiunge due piccoli postulati: gli oceani rendono l’espansione tra continenti difficile, mentre le risorse economiche – prodotto del territorio che si controlla – sono fungibili, e dunque facilmente trasforbili in capacità militari. La logica conseguenza del ragionamento di Measheimer segue spontaneamente: le Grandi Potenze mirano a controllare i continenti in cui sono situate per evitare che potenze concorrenti possano minacciarle, ma così facendo attirano potenze extra-ragionali che entreranno in competizione con loro. La politica di potenza, in altre parole, è una tragedia in quanto la ricerca della sicurezza non trova mai un punto di equilibrio che soddisfi tutti gli attori.

 

La teoria è interessante, ma ha diversi problemi. Fior di studiosi di relazioni internazionali e di storia diplomatica hanno sollevato più di un’obiezione empirica suggerendo come più che spiegare la storia, Mearsheimer avrebbe forzato diversi passaggi storici per farli quadrare con la sua teoria. Ma ci sono anche altri problemi, logici e concettuali, prima che empirici. Nella teoria di Mearsheimer, non c’è spazio per la leadership, le istituzioni politiche e la politica interna. Di conseguenza, che in capo alla Russia ci sia Putin, Navalny o Topo Gigio, non cambia molto: le Grandi Potenze cercano l’egemonia regionale a prescindere. E lo stesso vale in passato: la Germania di Hitler o la Gran Bretagna di Disraeli non avrebbero perseguito politiche molto differenti anche con regimi politici interni nettamente diversi e capi di stato con altre idee o visioni. La politica interna sarebbe poi apparsa nei lavori di Mearsheimer, in particolare nel suo controverso “The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy” (scritto insieme a Stephen Walt di Harvard), altro testo metodologicamente discutibile in quanto cerca di spiegare tutta la politica estera americana con il riferimento a una sola variabile indipendente. Altro problema del realismo offensivo riguarda la concezione quasi fisiocratica del potere a livello internazionale: tanto territorio, tante risorse; tante risorse, tanti carri armati. Ma questa visione non solo collide con l’era digitale nella quale viviamo, ma non è particolarmente utile neppure per comprendere la Gran Bretagna della prima Rivoluzione Industriale: un paese con popolazione ridotta e un territorio non particolarmente esteso che progressivamente arrivò a conquistare tutto il mondo. Parimenti, l’idea che le risorse economiche siano facilmente fungibili è discutibile: ciò era vero durante la seconda Rivoluzione Industriale, ma non vale molto oggi quando per produrre capacità militari avanzate servono decenni di investimenti.

 

Nelle scienze sociali – e soprattutto nelle Relazioni Internazionali – le teorie servono per far ragionare su possibili variabili o assunti. Questo è il grande merito del lavoro di John Mearsheimer. Per questa ragione, però, non bisogna confondere spiegazioni astratte con realtà fattuali.  Mearsheimer offre un’interessante interpretazione. Ma non è né l’unica né necessariamente quella corretta. E difatti, nel suo j’accuse all’Occidente sulla questione allargamento della Nato e crisi ucraina, Mearsheimer non considera il controfattuale: possiamo davvero escludere che, senza l’espansione della Nato, la Russia non avrebbe aggredito alcune delle ex-Repubbliche Sovietiche o membri del Patto di Varsavia? E siamo davvero sicuri che, senza la protezione della Nato, l’Europa sarebbe cresciuta economicamente e avrebbe visto la diffusione della democrazia anche a Est? No, non possiamo. 
Ecco perché non possiamo prendere la spiegazione di  Mearsheimer come una lettura accurata e inoppugnabile. Per inciso, queste obiezioni non vengono dai due gemelli Gilli: vengono, tra gli altri, da Robert Jervis, uno dei più grandi studiosi di sempre nel campo delle relazioni internazionali – e scomparso solo pochi mesi fa – e da Stephen Kotkin, uno dei maggiori studiosi di storia russa.
 

Andrea Gilli 
Senior Researcher al Nato Defense College

Mauro Gilli
Senior Researcher al Politecnico di Zurigo

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono le posizioni ufficiali di NATO o NATO Defense College

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