Dall'archivio

L'ultima missione di Powell

Ligio al dovere, fedele agli ordini. L'abilità del segretario di Stato negli anni al servizio di Bush è stata quella di riuscire a raccogliere intorno a sé il consenso che alla sua Amministrazione era spesso negato

Pubblichiamo un articolo comparso il 5 gennaio 2005 sulla prima pagina del Foglio, sui quattro anni di Powell al servizio di Bush e la cosiddetta "dottrina Powell", basata sulla capacità di convincere gli interlocutori della bontà delle proprie scelte


 

Il "viaggio americano" di Colin Powell, quel viaggio narrato nella sua autobiografia, la metafora di un'avventura cominciata nel South Bronx, continua. Al di là dell'oceano, tra le migliaia di vittime dello tsunami, Powell rappresenta gli Stati Uniti, spalla a spalla con il fratello del presidente George W. Bush, Jeb, chiamato e voluto perché esperto di catastrofi naturali e anche perché “la famiglia in molti casi fa una bella differenza", come ha detto candidamente Jeb. E sì che molti hanno sempre pensato che Powell fosse fuori da quella famiglia, lui che la frequenta da anni, lui che ha lavorato con Bush senior, lui che però si è scoperto colomba in un mondo dominato da falchi. L'avevano salutato con mestizia, il soldato Powell, quando aveva dato le dimissioni, tutti convinti che se ne andasse l'unico disobbediente, l'unico in grado di arginare i guerrafondai capeggiati dal presidente. Ma il segretario di Stato uscente non è un disobbediente. E' un diplomatico e un militare, uno che conosce il significato della fedeltà e della lealtà, e le rispetta, uno che, soltanto una decina di giorni fa, in un pranzo organizzato dal Christian Science Monitor, ha detto di quel presidente con il quale, secondo la maggior parte dei commentatori, ha rotto da tempo: "E' stato semplicemente un privilegio lavorare per lui. E' un leader nel senso più vero del termine. Vede le sfide e le affronta, non le evita, ed è pronto a fare gli investimenti necessari per gestirle, anche quando le sue decisioni non sono popolari a livello internazionale".

 

Powell è un uomo del presidente. Lo sta dimostrando con l'attivismo di questi giorni, con le visite ai governi colpiti dallo tsunami, con le rassicurazioni sul fatto che "gli Stati Uniti sono al vostro fianco", con l'organizzazione del summit di Giacarta, previsto per domani, che è il segnale concreto del coinvolgimento e dell'impegno degli americani, con il pragmatismo che Powell ha imparato nella sua carriera militare, dove due sono i modelli da seguire: "valutare la situazione" e "mettere insieme gli strumenti utili a risolvere i problemi". Secondo il segretario di Stato, ora non è più tanto una questione di risorse – "non c'è scarsità", ha dichiarato –ma di organizzazione: è necessario fare in modo che gli aiuti arrivino a chi li aspetta, e che lo facciano in fretta. Ha anche parlato della possibilità di sospendere il debito dei paesi del sud-est asiatico, ma ha specificato che questa non è una decisione che gli Stati Uniti possono prendere da soli, è una scelta da condividere "nella sede del Club di Parigi", perché tutto il mondo deve avere a cuore questa crisi umanitaria. Powell e Jeb Bush visitano le unità di crisi, parlano con le organizzazioni attive nel sud-est asiatico, ascoltano i volontari, danno consigli. La loro faccia è la faccia dell'America "compassionevole" celebrata da Bush e lo stesso Powell, appena arrivato in Thailandia, ha voluto ribadire la natura della sua missione: "Non siamo qui perché cerchiamo un vantaggio politico o perché vogliamo apparire migliori agli occhi del mondo musulmano. Siamo qui perché ci sono esseri umani che hanno bisogno, un disperato bisogno d'aiuto".

 

Con lo stile del contraddittorio creativo

L'abilità di Powell in questi quattro anni al servizio di Bush è stata quella di riuscire a raccogliere intorno a sé il consenso che alla sua Amministrazione era spesso negato. La cosiddetta "dottrina Powell" si basa proprio sulla capacità di convincere gli interlocutori della bontà delle proprie scelte. Fermo restando però che il compito di un segretario di Stato è dare i migliori consigli – “la migliore fedeltà che puoi garantire a chi ti comanda è metterlo a parte delle tue idee migliori" – e poi offrire "un sostegno totale". E' quello che Powell ha fatto in occasione della guerra in Iraq, ispirandosi, dice, al "metodo Marshall", quello del contraddittorio creativo, volto a valutare precondizioni e conseguenze senza ideologie: "Ho avvertito il presidente che sarebbe stata una missione difficile, non soltanto per la parte militare, ma anche perché avremmo assunto la responsabilità di 25 milioni di iracheni". Ma una volta che la decisione è stata presa, “non c'è stato alcun disaccordo, alcuna confusione, alcuno scontro. Quando so di partire per un lungo pattugliamento, so che andrò fino in fondo". Così ragiona il fedele soldato Powell: si discute prima della missione, ma una volta che si è sul campo non si cede ai ripensamenti. E rivendica – lo ha fatto ancora una volta nell'incontro con il Christian Science Monitor – la convinzione che la campagna irachena fosse necessaria, come ha fatto nel febbraio del 2003 di fronte al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

 

Di fronte al Consiglio di sicurezza Colin Powell ha mostrato i documenti dell'intelligence sulle armi di distruzione di massa, la fiala di antrace, la "smoking gun" che ha determinato l'inizio della guerra: "Erano le migliori in formazioni che i servizi segreti avessero a disposizione. Non le ho inventate. Non le ho scritte di notte nel mio ufficio. Sono deluso che si siano rivelate false? Certo che lo sono". In quell'occasione il mondo si era diviso su Powell: poverino, avevano detto alcuni, guarda cosa lo obbligano a fare; opportunista, accusavano altri, gioca la carta della sua credibilità personale per perorare la causa della guerra, ma lo sa anche lui che le armi di distruzione di massa non ci sono. Ma Powell non lo sapeva, nessuno intorno a lui lo sapeva, "non c'è stata neppure una voce di dissenso quando preparavamo i documenti da presentare all'Onu". Allora, come poi durante la guerra in Iraq, Powell ha speso la sua faccia nella difesa della scelta americana, senza cedere alla sua natura pragmatica nel momento in cui il dopoguerra si è rivelato più complesso e drammatico rispetto al previsto. Il New Yorker ha riportato la risposta di Powell a un diplomatico straniero che gli ricordava le ultime notizie su Bush che dormiva sonni tranquilli, da bambino: "Anch'io dormo come un bambino. Mi sveglio ogni due ore piangendo". Questa frase, come molte altre, è stata letta come l'espressione della frustrazione di Powell, ingabbiato in un ruolo che gli richiedeva fedeltà a idee che non condivideva. Ma il segretario di Stato non si è mai sentito imprigionato, e il suo consenso non è mai calato. Nell'estate del 2003 godeva del 75 per cento dell'approvazione statunitense e il picco più basso è stato del 65 per cento, spesso in controtendenza rispetto al suo capo, senza mai dissociarsi in modo netto dalla linea strategica dell'Amministrazione, senza mai doversi dichiarare anti Bush per guadagnare in popolarità.

 

Questo atteggiamento è lo specchio del "generale Powell", ligio al dovere, fedele agli ordini. Ma è anche qualcosa di più, l'espressione della diplomazia applicata alla politica, la capacità di smussare gli angoli più spigolosi senza rinunciare alla determinazione. Non lascia l'Amministrazione con la coda tra le gambe, come hanno voluto dipingerlo in molti, battuto dalla forza dei più numerosi falchi, tanto che sta ancora usando il suo prestigio internazionale per organizzare gli aiuti nell'Asia meridionale, mentre sono sempre più insistenti le voci che lo vogliono - anche se al momento è più una speranza che una concreta possibilità - alla guida della Banca mondiale. Powell lascia il dipartimento di Stato a Condoleezza Rice con la consapevolezza di aver seguito la strategia giusta, la più redditizia: "I problemi vanno e vengono. E' il processo che conta sempre".

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