La vignetta di Makkox

Esportare la democrazia

Adriano Sofri

Il clima, la pandemia, la gara con le autocrazie e adesso l’incidente talebano. È ancora capace la democrazia di affrontare tutto questo? E noi ne siamo all’altezza? Le decisioni e  il consenso, l’informazione, i giovani e i vecchi in tempi di emergenze globali. Un’indagine

Nella gara del 21esimo secolo fra democrazie e autocrazie, spetta a noi dimostrare che le democrazie possono farcela. E le democrazie del mondo guardano di nuovo alla guida dell’America, in due modi. Innanzitutto, per dimostrare che siamo capaci di controllare questo virus a casa nostra. E in secondo luogo, per mostrare che possiamo aiutare ad affrontarlo in tutto il mondo. Soprattutto, sta dimostrando che le democrazie possono farcela, e che l’America è tornata a guidare il mondo, non con l’esempio della nostra potenza, ma con la potenza del nostro esempio. Noi siamo gli Stati Uniti d’America. Siamo preparati come non mai. Abbiamo gli strumenti e le risorse per salvare vite a casa nostra e nel mondo. E’ questo che siamo. E’ questo che facciamo. E’ per questo che non esiste una nazione come noi sulla Terra”.

Presidente Joseph Biden, 8 aprile 2021 


Le belle discussioni su quale dei modi di governo sia migliore sembrano consegnate a un passato remoto, il tempo in cui i sapienti si interrogavano per la prima volta. L’aristocrazia degenera in oligarchia, la monarchia in tirannide, la democrazia in demagogia, e poi di nuovo il giro ricomincia. Nella nostra parte di mondo abbiamo finalmente convenuto attorno alla democrazia, nella versione di Churchill 1947: “la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre sperimentate finora”. E’ una versione abbastanza scettica, piuttosto incoraggiante, come un buon sigaro. Quando nominiamo la democrazia, in una conversazione ordinaria, ci riferiamo a uno stile di vita, a un’istruzione universale, e a una dose decente di libertà. Ne parliamo con impegno solo quando ci sembra che bisogni preoccuparsene. Allora la democrazia smette di essere uno sfondo quasi naturale della scena sulla quale ci muoviamo, per trasformarsi in un problema. A provocare questo fastidioso slittamento è il passaggio dalla libertà come connotato e pregio della democrazia all’efficacia. La domanda diventa: funziona? E funziona meglio o peggio di quelle “altre” forme di governo che intanto si sono insediate attorno a noi?

La domanda ce l’eravamo fatta già prima, in particolare alla fine della Seconda Guerra, che fu lo scontro epocale fra il totalitarismo razzista del nazismo e dei suoi alleati e la democrazia occidentale, col decisivo alleato sovietico, cambiato nel nemico dopo la cortina di ferro. Si giurò che gli stati europei divenuti democratici non si sarebbero fatti più la guerra tra loro. Si pensò anche che la Bomba avrebbe dovuto mettere al bando la guerra, ora che minacciava la sopravvivenza del genere umano. Poi la Guerra si diramò in un estuario di guerre, e la Bomba proliferò e si miniaturizzò in una miriade di bombe. Si tirò avanti così, la competizione era delegata all’economia. In effetti l’economia diede ragione alle democrazie.

 

A cambiare la scena arrivò la Cina. La sua fu insieme una rivalsa della geopolitica immemorabile e un successo dell’inedito capitalismo comunista. Aveva da vantare l’uscita dalla fame, e un modello esterno vorace e impassibile: nessuna ingerenza, accaparramento di territori e materie prime, esportazione di lavoratori, capacità di rendersi indispensabile alle leadership con cui entrava in contatto. Sembrò rassicurare: non avrebbe fatto guerra al mondo, l’avrebbe comprato. La competizione fra capitalismo e socialismo era finita. Quella fra Usa e Cina tiene il campo, e non ha bisogno di formalizzarsi in opposti -ismi. Xi Jinping proclama la superfluità disadatta della democrazia, un tic recente degli occidentali, ipocrita per giunta. Gli Stati Uniti, che sono andati sbattendo come un marittimo ubriaco fra isolazionismo e gendarmeria mondiale, hanno tirato i remi in barca e, dopo i saldi della vecchia epoca, l’Iraq, ora l’Afghanistan, incrociano nel Mar Cinese.

Questo era l’antefatto. Intanto era maturato un altro problema, enorme: la consunzione delle risorse del pianeta, e il riscaldamento globale. 

Non ignoro le divergenze sulla portata dell’incidenza umana: si tratta comunque di una questione che incombe con urgenza sull’intero mondo, ignorando i confini umani. Mi ricordo l’angoscia di neofita verde, al crepuscolo del rosso, per la questione dei confini. Gli orsi polari, che fanno non so più quante decine di km al giorno, e passano dalla Finlandia alla Svezia alla Norvegia, che magari pensano di darsi una legislazione diversa sugli orsi. O sulle balene.

 


La concorrenza delle autocrazie. La crisi del clima e poi la pandemia che è intervenuta a raddoppiarla. Il vantaggio dell’autocrate sull’effimero governante di una democrazia e sulle sue inerzie, specie sui campi di battaglia


 

Oggi due stati pressoché agli antipodi, e pieni di somiglianze seducenti, mari e monti, come Norvegia e Nuova Zelanda, sono divise da una cosa sola, e quando le rispettive prime ministre si incontrano bisogna escludere dal menu la carne di balena. (La neozelandese Helen Clark spiega alla collega: “Nel nostro paese la gente sente una profondissima affinità con le balene e si augura con tutto il cuore che nuotino liberamente, e liberamente respirino nei grandi oceani senza essere sfruttate). Fui sul punto di diventare un bird-watcher e un esperto di rotte migratorie: mi servì quando venne il momento del passo degli animali umani e dei loro cacciatori. 

Insomma, unico il pericolo, si riponeva la questione: a mettere riparo ai guasti del pianeta funzionano meglio le democrazie o le autocrazie? L’interrogativo sta là perlomeno dagli anni 70 del secolo scorso. La risposta più citata è quella di James Lovelock, l’eminente scienziato di Gaia, che ha dalla sua la lunga durata – è vivo e ha 102 anni. Disse Lovelock quando ne aveva appena 90: “Anche le migliori democrazie concordano sul fatto che quando si avvicina una grande guerra, la democrazia deve essere sospesa per il momento. Ho la sensazione che il cambiamento climatico possa essere un problema grave quanto una guerra”. (Intervista a Leo Hickman per il Guardian, 2010: “Gli umani sono troppo stupidi per impedire il cambiamento climatico”). Dichiarazione notevole, eterodossia a parte: Lovelock del resto è fautore dell’energia nucleare. Il paragone con la guerra suona familiare, reduci come siamo dal paragone fra la guerra e la pandemia.

L’argomento primo in favore dell’autoritarismo è quello del tempo. La democrazia, si dice, non è lungimirante. La salvezza del pianeta esige sacrifici nel tempo breve e mira a risultati misurabili solo nel tempo lungo. Nelle “generazioni future”, come ci si è abituati a dire, dopo che ogni neonato viene al mondo con un debito finanziario non rimborsabile, e con un debito di ossigeno ancora più soffocante. Piccola digressione: sono sempre stato attratto dal motto di John Maynard Keynes: “Nel lungo periodo siamo tutti morti”. Non credo di averne afferrato adeguatamente il senso, tanto più che mescola una fiducia nella razionalità con la scommessa sullo spirito animale. Però da tempo, caduta ogni illusione sulla pratica politica contemporanea, mi rifugio nel rovesciamento del motto: “Nel breve periodo siamo tutti morti”. E insomma, la politica democratica vive del consenso alle brevi scadenze elettorali, e vivacchia del consenso misurato “in tempo reale”, dai sondaggi e dai cinguettii. I politici democratici vendono il loro regno per un minuto: sono i meno indicati a ragionare alla stregua della fine del mondo, sebbene anche lei si faccia svelta. Xi Jinping si è nominato a vita. Anche Putin, di riffa o di raffa. Hanno tempo. A mostrare una certa inefficacia dell’autoritarismo è, singolarmente, il papato: monarchia assoluta e monosessuale. A mostrare un’inefficacia della democrazia è il Csm coi suoi meccanismi elettorali: ironicamente, è venuta da lì l’indicazione più pressante in favore del sorteggio... 

Insomma, l’autocrate ha un grosso vantaggio sull’effimero governante di una democrazia. Tuttavia anche l’autocrate può scegliere l’interesse ravvicinato e particolare, compreso il più antiecologico. E’ connaturata all’autocrate la corte e una sospettosità malata e una paura di perdersi: più superficiale e fatuo nell’attaccamento al potere – la tessera gratis allo stadio, cose così – un esponente democratico è più rassegnato a uscirne così come vi è entrato, più un vitalizio. Varrà la prova dei fatti. Se Xi Jinpin, o Putin, il parente povero della grande autocrazia, mostreranno di precorrere gli adempimenti della mitigazione dell’inquinamento. Non direi, per ora. La Russia poi è messa male, dipende dai combustibili fossili come un emirato.  

Contro la democrazia, pesa anche il debito che i suoi dirigenti contraggono con i bisogni e i desideri dei cittadini. I cittadini possono essere ancora meno lungimiranti (e certo più poveri) dei dirigenti. In Francia, dove il concetto di cittadino è nato, o almeno si è nobilitato (mi offrirono una cena da Procope, a Parigi, buonissima, ma non dimenticherò le targhette della toilette: “Citoyens” et “Citoyennes”), l’insurrezione dei Gilets jaunes nel 2018 fu scatenata dagli aumenti di gasolio (appena 6,5 centesimi al litro) e benzina (2,9 cent. al litro). Ancora: si addebita alla democrazia, cioè ai cittadini non sudditi, di mancare del minimo di conoscenza scientifica per valutare le opzioni della transizione ecologica. Per ambedue gli aspetti – benessere materiale, preparazione scientifica – la sensibilità ecologica appare, ed è spesso di fatto, un lusso dei ricchi, un privilegio “borghese” se non aristocratico, roba da contesse. Probabilmente non è più così. (Mentre scrivo, mi compare una nota di Haaretz: Can climate change teach Middle East enemies to be friends?) E’ possibile che genitori e nonni dei ceti medi o della classe lavoratrice siano più attaccati al destino di figli e nipoti, a un futuro in cui non ci saranno, di quanto non siano le classi più favorite. Il tempo gioca anche qui una parte essenziale. Quanto più tempestivi (ormai: meno tardivi) saranno i risarcimenti all’ambiente ferito, tanto maggiore sarà la capacità di realizzarli senza ricorrere a limitazioni drastiche delle libertà individuali, delle inclinazioni demografiche, degli stili di vita: più sobri, oppure, alla lettera, più “castigati”. 

La crisi del clima era stata descritta come il più grande problema di azione collettiva della storia umana, ed ecco che la pandemia è intervenuta a raddoppiarla. In ambedue i casi, l’azione collettiva ha bisogno di un cambiamento nelle abitudini individuali. Coincidenza stringente: l’intreccio fra le due “emergenze”, la malattia cronica e tuttavia accelerata del clima e quella acutissima e cangiante del Covid-19, permette di rimisurare la gara fra democrazia e autocrazia attraverso l’esperienza inedita delle reazioni alla pandemia. La pandemia ci ha costretti a modi davvero “castigati”, e prolungati – non come quando manca la corrente per un guasto di un’ora. Ne è venuto anche un colpo alla fiducia (“langeriana”) in una conversione ecologica che non sia solo né tanto sacrificio. Un filone non marginalissimo di moralismo ecologista inclina a cogliere nella pandemia qualcosa di simile al castigo di Dio – o della Natura. 
Alla democrazia si imputa la lentezza delle decisioni, o senz’altro l’inerzia. Ne abbiamo avuto esempi abbaglianti, specialmente sui campi di battaglia. In Siria, Obama aveva fissato una linea rossa e se ne era procurato l’approvazione, poi la ignorò. Mentre simulava di oscillare fra il sì e il no, Putin spedì nel giro di un giorno esercito e flotta e si prese la Siria. Lui non aveva dovuto consultare nessuno. In verità Obama, se solo avesse voluto, sarebbe stato altrettanto efficace e veloce.

La stessa considerazione vale per i provocatori fatti compiuti delle forze armate di Erdogan, come nel Rojava. Erdogan è veloce, certo. Proprio a Istanbul, nel 2011, fu solennemente votata la “Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. La Turchia era prima firmataria. Dieci anni dopo, marzo 2021, in piena aura pandemica, Erdogan dichiarò che la Convenzione “rovinava le famiglie e incoraggiava l’omosessualità”, e che la Turchia usciva. Ci furono forti proteste, punite con mano ancora più dura grazie al pretesto delle restrizioni per il Covid-19. Il 1° luglio, rigettato un ricorso dell’opposizione, l’uscita è diventata ufficiale. Nei giorni scorsi Recep Tayyp Erdogan aveva una referenza in più per offrirsi come partner privilegiato al governo talebano. (Quanto all’Afghanistan del ventennio “occidentale”, il suo nuovo codice penale, finalmente votato dal parlamento nel 2018, aveva accantonato le pene per la violenza contro le donne).

I critici della debolezza democratica di fronte al cambiamento climatico calcavano sul tasto della necessaria governance da parte delle élite scientifiche, contrastante con l’ideale di una conduzione dal basso. Alla vigilia della pandemia, nel 2019, era esplosa in Italia una discussione sulle élite (sollecitata da un saggio di Baricco su Repubblica) mossa dal discredito delle competenze di cui i social media erano lo strumento, e dall’impudenza demagogica dell’unovaleuno. Aria del tempo, lungamente incubata del resto, che spaventava i titolari di carriere e metteva in soggezione anche veri competenti, indotti a chiedersi se non ne fossero davvero colpevoli. La pandemia ha soffiato come una bufera su questo paesaggio. Dapprincipio, restaurando d’un colpo, come in un Congresso di Vienna di crinoline e parrucche, il ritorno pentito alle competenze. Suonava l’ora dei virologi e delle immunologhe: nel pubblico non volava una mosca.


Il ritorno, precario, delle competenze e il governo dei tecnici. Il fanatismo antiscientifico di Ungheria e Polonia e la corrispondenza con l’atteggiamento nei confronti delle migrazioni. La rinuncia a sostenere le democrazie dove provano ad affiorare. L’attaccapanni delle elezioni. Le pestilenze, la guerra e la sospensione del diritto ordinario


 

 Non durò, come si sa. Restava la differenza con gli scienziati del clima. I quali probabilmente sono meno divisi: numero e titoli dei firmatari del rapporto dell’Ipcc (Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico) presentato a Ginevra il 9 agosto, sono impressionanti. Prodotto di migliaia di ricercatori vagliato da un comitato di 234 scienziati. Ma gli scienziati del clima non sono ancora entrati in pianta stabile nei talk-show. Le divergenze si nutrono del calor bianco delle luci di studio e del trucco. Il pubblico degli incompetenti si fa le sue predilezioni, se non sulle idee, sulle fisionomie e le fotogenie; e gli scienziati stessi si dispongono ad adattare dolcemente le proprie idee ai gusti dell’audience. Con la pandemia ci sono state tre tappe: l’epifania degli esperti, la rimonta affannata dei politici e dei giornalisti, l’assalto al palco da parte del pubblico in sala, antipolitico e antiscientifico insieme. Complottista, volentieri. 

Un punto di forza delle democrazie è nel libero flusso delle informazioni. Il rovescio è nel libero flusso delle disinformazioni. In questo libero mercato la moneta cattiva scaccia la buona. Il problema nuovo con le democrazie è che i cittadini istupidiscano, ma ad alta voce. 

Per effetto della pandemia uno svolgimento già fortemente avanzato da noi, il governo dei tecnici, ha ricevuto un ulteriore impulso, tanto più che era raddoppiato dai fondi “next generation Eu” (allora c’è un proposito di guardare alla generazione futura). Dunque: gli scienziati, i competenti, vanno al governo più facilmente coi tecnocrati che coi politici di professione? Si direbbe di sì. Bisogna definire tecnocrati, altra cosa da tecnici. Direi: persone con una preparazione specifica inserite nel sistema di potere senza figurarvi secondo i modi di elezione rappresentativi. Un governo politico con una guida tecnocratica ha le mani più libere di fare scelte a lungo termine e di limitare i diritti di proprietà privata e gli interessi acquisiti. In teoria. 

Quanto al clima, la pratica è ancora inadeguata, e deludente. Si può rintracciare in Singapore un modello di dispotismo orientale ecologico? Autocrazie ecologicamente generose non ne vedo. In qualcuna, forse, la repressione della corruzione è più forte, perché più spietata ed “esemplare”; ma nella maggioranza succede il contrario. La Cina sta saccheggiando e devastando l’Africa, foreste del Mozambico e del Congo, miniere, sottosuolo angolano... Autocrazia triviale in un gran paese come il Brasile è quella di Bolsonaro. Ha voluto dire la più distruttrice gestione del patrimonio naturale e la più imbecille minimizzazione della pandemia. Lula, se verrà, mi auguro, rieletto, saggio della saggezza che danno gli anni quando siano trascorsi in una galera, sarà soprattutto valutato sul destino dell’Amazzonia. Il contrasto democrazia-autocrazia sembra riprodurre quello sinistra-destra. Con la differenza di scala, Bolsonaro è stato il corrispondente di Donald Trump. Trump aveva rovesciato tutte le decisioni sul clima prese da Obama e denunciato l’accordo di Parigi del 2015: Biden, appena insediato, l’ha ripristinato. In Europa, Ungheria e Polonia offrono un esempio di fanatismo antiscientifico, di subordinazione agli interessi corporativi più accaniti. Orbán ha usato la pandemia per sospendere il parlamento. In tutti questi esempi c’è una corrispondenza con l’atteggiamento nei confronti delle migrazioni: le quali possono essere considerate come una terza “emergenza” globale incombente, o come un capitolo bruciante delle altre due. 

Alcuni studiosi sostengono che, al di là del confronto generico fra democrazie e autocrazie, incide l’esperienza storica di ciascun paese con la democrazia. Il “capitale sociale democratico”. E’ un’opinione seducente. Fa pensare che, così come il capitalismo nacque dalla cooperazione dei liberi cittadini, dai comuni irrigui toscani e padani, dalle Fiandre e dalla Renania, anche la sua “mitigazione” si avvantaggerà dal ripercorrere quella storia. E che non sarà altrettanto ricco e duttile il percorso centralistico e colossale del dispotismo orientale.

Il Rapporto dell’Ipcc ha dichiarato irreversibili alcuni effetti del mutamento climatico. Vuol dire che la riparazione ha superato la prevenzione. Il mutamento si accompagna alla decadenza, dopo tanto successo, della parola Utopia, e al sopravvento della Distopia. Il futuro e le sue generazioni possono essere private di una quantità di scelte, bruciate una volta per tutte. Oltre che un clima vivibile, sarebbe bello lasciare alle generazioni future la libertà e l’amore per la libertà. 
Sospendere, o adattare sofficemente le democrazie esistenti fin tanto che duri l’emergenza climatica – che è senza fine, è un modo permanente dell’esistenza, una lotta continua – minaccia di far perdere la memoria della democrazia e dei suoi pregi. E di avviarsi a una destinazione imprevedibile contro qualunque principio di cautela. Intanto si rinuncia già a sostenere le democrazie dove provano ad affiorare. E’ avvenuto con le primavere arabe, fino alla Tunisia oggi, è culminato rovinosamente in Afghanistan. La democrazia – il suo sinonimo, l’occidente – che fa bancarotta in Afghanistan assesta un colpo grave al confronto fra democrazia e autocrazia anche sul cambiamento climatico, sulla pandemia. Vale un infelice salto di specie. Una parte del sentimento e dell’opinione europea cede da tempo al richiamo dei regimi, e degli uomini, forti. In Italia questa parte non è ancora pronta ad ammetterlo, ma è già maggioranza. 
Il rimedio alla debolezza della democrazia sta in più democrazia. E’ una frase fatta? L’impegno civile sui temi ecologici nei nostri paesi è cresciuto sensibilmente, ha preso forme aperte, ripudia ogni razzismo ed è sensibile agli altri animali, e soprattutto è dei giovanissimi e dei giovani, come Greta Thunberg. E poi la pandemia ha contrapposto i giovani ai vecchi come non era mai successo in tempo di pace: i vecchi che ne muoiono, i giovani impazienti. Una distanza, se non una frattura, fra i giovani e i vecchi era già attiva, perché i vecchi sono sempre più vecchi e più numerosi, e perché i giovani crescono praticando un linguaggio cui i vecchi arrivano di rado, e come a una lingua straniera. Ma la pandemia li ha messi contro. 

Commentando su Foreign Policy una visita londinese di Greta nel luglio 2019, poco prima della pandemia dunque, David Runciman (“How Democracy Ends”) scriveva che “i giovani e i vecchi sembrano sempre più due distinte tribù politiche, e le differenze maggiori sono forse sul cambiamento climatico. In Gran Bretagna pressoché metà dei votanti fra i 18 e i 24 anni ritiene il riscaldamento globale la più urgente questione del nostro tempo. Fra gli elettori sopra i 65 anni a pensare così sono meno del 20 per cento”. C’è un riscaldamento globale, e un invecchiamento globale. I vecchi votano di più, e hanno mediamente altre priorità. I vecchi, dice, fanno più fatica a cambiare il loro comportamento: sono più attaccati alle loro cose. E però, i vecchi si ricordano delle cose che ai loro tempi non c’erano, e di cui non c’era bisogno. 

In coincidenza con la visita di Greta a Londra ci furono vaste manifestazioni di “Extinction Rebellion” e altri gruppi, essenzialmente giovanili. Però il signor Phil Kingston, tratto in arresto per essersi arrampicato sul tetto di un treno, aveva 83 anni. 

La democrazia elettorale dunque non sembra adeguata al problema e alla sua urgenza. Esiste una democrazia che non sia elettorale? Nello svuotamento di tutta una trama di partecipazioni e mediazioni, i partiti, i sindacati, il parlamento, ci pare che non resti se non quel passaggio, le elezioni, un attaccapanni cui non sia appeso più niente. Tuttavia la democrazia, il suo modo vivace, molteplice, colorato, di vivere parlare e cantare, senza quella condizione minima, l’attaccapanni, sarebbe spacciata.

Più democrazia, dunque. Ma abbiamo appena sperimentato che non sappiamo farlo. E dopotutto si trattava ancora di uno scherzo, a paragone di altre catastrofi naturali. Ci siamo arrabbiati, siamo peggiorati in ironia, senso delle proporzioni, simpatia. 

C’era già stato un fallimento nella prevenzione del nuovo virus. Gli scienziati avevano previsto e avvertito. Come ora i militari e i servizi a Biden su Kabul e la tenuta del governo afghano. Hai il vantaggio della conoscenza, e prima della scienza, ma non lo sai usare, o non vuoi. Gli umani, e soprattutto i loro capi, affrontano il problema solo quando è diventato estremo e pressoché incurabile. Riserveranno alla loro terra solo cure palliative? 

La prevenzione è infelice. Nelle autocrazie, perché sono prevalentemente ottuse e ostili alla circolazione delle informazioni. Perché l’allarme arrivi alle orecchie del gran capo, bisogna che i funzionari ammettano di aver mancato e i cortigiani trovino il coraggio di trasmetterlo. Non occorre risalire a Nerone. Per esempio: Chernobyl. Nelle democrazie, la prevenzione riuscita non procura popolarità né voti. Una disgrazia sventata non si vede. Fatica vana esibire ogni volta il calcolo di quanto si sarebbe risparmiato governando bosco e sottobosco e alternanza di coltivazioni e di specie vegetali: l’uomo è fatto per i Canadair e i Canadair per l’uomo. In passato, l’uomo, e specialmente la donna, curavano la manutenzione in modo da scongiurare i disastri, perché sapevano che era affar loro e dei loro figli e nipoti. Altrove, nelle grandi autocrazie, la prevenzione si eseguiva a suon di milioni di schiavi. In democrazia, si può tutt’al più chiedere della prevenzione agli agenti segreti, come nei film: il paese, o il pianeta intero, si è salvato grazie al loro operato, e nessuno lo saprà mai. E’ l’incendio, così rosso, così spettacolare, che, spento, può portare voti a chi si faccia il selfie col Canadair. Prendetevi la briga di prevenire l’eruzione del Vesuvio, per dire. 
Nella vita reale i catastrofisti hanno una cattiva reputazione per ragioni di scaramanzia. Uccelli di malaugurio, da Cassandra in poi. Ma la dilazione permanente gioca in loro favore, per così dire. Le case abusive salgono ogni giorno di un passo in più verso il cratere del vulcano. Come gli insediamenti dei coloni in Israele. 

 

La Cina ipnotizzò gli spettatori occidentali, noi, tra ammirazione e raccapriccio, sigillando Wuhan e irrompendo nelle case. Ci rassicurammo: era impensabile qui. Poi è stato tutto un precipitare in un altro mondo. Presa bene. Una gran paura, ma condivisa, una terribile angoscia, le agonie solitarie, le cremazioni anonime; ma anche solidarietà, perfino un buonumore, un orgoglio, la sensazione di essere coautori, non destinatari passivi, della propria clausura. Un confronto tutto a nostro favore. 

Ci fu un corpo a corpo televisivo fra caratteristi dei talk e improvvisi scienziati. Poi il pubblico ne ebbe abbastanza. Qualcuno, pochi, era già stato ostile ai vaccini: antemarcia. Ora si veniva diramando tutta una sequela di posizioni – “identitarie” – sui vaccini e i dettagli pertinenti. Pluralismo comprensibile e addirittura utile a chiarirsi meglio le idee tutti quanti. Colpiva però la deriva delle obiezioni di coscienza, non a spese proprie, ma del bene comune, per lo meno probabile. La democrazia, quel suo fondo necessario, la maggioranza, veniva sentita da alcuni come una sopraffazione delle minoranze. La maggioranza si affidava ai vaccini e alla scienza, non ostanti i contrasti e i passi falsi e l’AstraZeneca (le mie dosi), e apprezzava la scala di valori della profilassi. Non si capacitava della piega presa da alcuni dissidenti, persuasi di difendere con abnegazione la libertà personale e lo stato di diritto. Pensava, buona parte della maggioranza, che ci fosse una infantile, narcisistica sproporzione nel linguaggio e nei gesti che evocavano la stella gialla della discriminazione razzista, nominavano Auschwitz, assimilavano mascherina e burka, e scendevano in piazza, distanze o no (no, spesso), mascherine o no (no ecc.), mescolati fra benecomunisti, newagisti e neofascisti. Si aprivano crepacci improvvisi fra persone fino ad allora sicure le une delle altre, se non amiche. Le une persuase che toccasse loro presidiare la trincea travolta delle libertà civili e dell’intelligenza critica, le altre sbalordite di scoprire modi di pensiero inimmaginati dalla loro razionalità. Io, che pure aspiro alla minoranza di uno, sono stato con naturalezza dalla parte dei vaccini, della scienza, e della delega giudiziosa a chi era legittimato a prendere decisioni. E ho avuto la mia insofferenza, per lo squilibrio fra chi ostacola il debellamento di una sciagura e chi non rischia di incidere sulla sorte altrui. Vaccinisti ed ecologisti non coincidono sempre, anzi, una diffidenza per i vaccini è in proporzione più diffusa fra certi ecologisti più integrali (integralisti?). Ma sono accomunati dal sentimento che il tempo stringe, che gli altri sono cinici, o non capiscono: bisognerà passargli sopra. E la causa è superiore quante altre mai. Anche quando la maggioranza non sia dalla parte giusta: “un giorno ci sarà grata”... 

Ma c’era un tarlo a rosicchiare la mia impazienza per il vittimismo narcisista. Non paragonavo la pandemia alla guerra: nessuno che dalle vere guerre sia passato lo farebbe. Salvo che per un aspetto: con le pestilenze, la guerra è la più tipica circostanza della sospensione del diritto ordinario. Richiamo alle armi, tribunali e codici speciali, coprifuoco, oscuramento, censura di giornali e comunicazioni, misure da tempo di guerra. (In Italia, la pena di morte è rimasta nel codice penale militare di guerra fino al 1994!) Vi ricordate Lovelock: “Il cambiamento climatico è una specie di cimento analogo alla condizione del tempo di guerra, e potrebbe portare alla svelta a una autentica guerra fisica”. E le guerre hanno le loro minoranze dissenzienti, i loro obiettori di coscienza (al costo della galera, allora), i loro disertori (al costo della vita): e contro di loro si mobilita un armamentario di denigrazione e sobillazione, in nome del corpo sociale, della patria, dei sacri confini, delle donne violate. Al cuore di questa confisca dei diritti e della chiamata a raccolta sta l’insulto infamante: “disfattista”. Forse stiamo ripercorrendo quella brutta strada? Disfattista, negazionista (pessimo trasferimento di una parola ben altrimenti grave), siamo di nuovo là? 
Cercando di non buttarmi nella mischia, sentivo continuamente il ronzio di una storia tremenda, nella quale mi ero imbattuto viaggiando nei posti disgraziati della terra. 

La storia è quella della persecuzione jihadista di medici e infermieri impegnati nella vaccinazione dei bambini contro la poliomielite. Ancora nella scorsa primavera, nella provincia afghana di Nangarhar – di cui è capitale Jalalabad – cinque persone impegnate nella campagna di vaccinazione, tre donne ventenni, sono state assassinate in altrettanti agguati, e altri quattro gravemente feriti. Pakistan e Afghanistan sono gli stati in cui la polio non è stata debellata, e anzi si è aggravata per effetto della persecuzione, che ha a più riprese costretto a interrompere la campagna e a perderne gli effetti. Secondo gli islamisti, i sanitari al soldo dell’occidente inoculavano i vaccini per rendere sterili i bambini. Dicevano che fossero fabbricati con organi di maiali. Dopo l’invasione dell’Afghanistan si diffuse la voce che contenessero l’urina di George W. Bush. Una fatwa dei talebani pakistani contro le lavoratrici della sanità intimava: “E’ dovere di ogni musulmano rapire queste donne quando si recano per le visite di casa in casa, e sposarle con la forza, anche se fossero già sposate, o usarle come schiave sessuali”. 

Il culmine tragico e romanzesco della storia fu raggiunto a ridosso dell’uccisione di Bin Laden, nella primavera del 2011, nei pressi della città pakistana di Abbottabad. Gli americani si valsero di un medico pakistano, il dottor Shakil Afridi, per ottenere, attraverso un falso programma di vaccinazione contro l’epatite B, il Dna di uno dei bambini ospitati nella residenza di Bin Laden e appurarne, con la parentela, la presenza. Più probabilmente Afridi ottenne soltanto un numero di telefono del custode e corriere di messaggi di Bin Laden, ma fu abbastanza per la Cia. Afridi, che forse non aveva mai saputo chi fosse l’obiettivo, è da allora in carcere in Pakistan. Trump promise che, una volta eletto, l’avrebbe fatto liberare “in due minuti”. Fatto sta che da allora si riscatenò la caccia grossa al personale sanitario, soprattutto femminile, impegnato nelle vaccinazioni. In tre anni, dal 2012 al 2015, i talebani uccisero nel Pakistan 63 fra infermiere e loro accompagnatori. In tutto le vittime – spesso, prima, violentate e torturate – sono state centinaia. Le donne locali impegnate nella vaccinazione erano pagate 5 dollari al giorno. 

La polio fu reimportata in Siria e in Iraq, da dove era stata sradicata, probabilmente dai combattenti arabi trasferiti al fronte di Pakistan e Afghanistan, e poi rientrati per unirsi al jihad. Anche qui donne e uomini dell’Unicef, del Who e volontari impegnati contro la paralisi infantile, furono bersaglio di attacchi mortali. Centinaia di migliaia di bambini restarono senza vaccino. (I capi dell’Isis favorirono le vaccinazioni, spaventati di un’epidemia che invadesse il loro stato).

Storie di vaccini. Tante storie.

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