Quanti stracci volano tra Parigi e il New York Times

Mauro Zanon

Per la stampa anglosassone il concetto di laïcité continua a essere incomprensibile e un motivo per accusare la Francia di razzismo. Mesi fa era dovuto intervenire anche il presidente Macron, stanco del “French bashing”, ma le tensioni rimangono e forse sono destinate a non placarsi

Il rapporto tra media anglosassoni e laicità alla francese è una storia di grandi incomprensioni e tensioni che negli ultimi anni si sono inasprite. Il momento più critico è stato vissuto lo scorso anno dopo l’attentato islamista ai danni del professore di storia e geografia Samuel Paty, decapitato dal terrorista ceceno Abdoullakh Anzorov per aver mostrato in classe le vignette di Charlie Hebdo su Maometto. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, dinanzi al racconto di alcune testate anglosassoni secondo cui la causa dell’attacco era riconducibile al presunto clima di islamofobia diffuso e a quella “pericolosa religione francese” (Politico) che si chiama laicità, sobbalzò dalla sedia del suo ufficio dell’Eliseo, deplorando i “numerosi giornali” che “legittimano queste violenze” e spiegano che “il cuore del problema è la Francia razzista e islamofoba”.

 

Il Financial Times, Politico e soprattutto il New York Times, che titolò: “La polizia francese spara a un uomo e lo uccide dopo un attacco col coltello in strada”, minimizzando le responsabilità dell’attentatore, ricevettero una strigliata dal capo dello stato francese, stanco del “French bashing” e delle accuse a una nazione che ghettizzerebbe i musulmani attraverso la sua laïcité. Il problema è che l’incomprensione della stampa anglosassone nei confronti della laicità alla francese non è ancora stata risolta, e secondo diversi osservatori, come il professore di Storia contemporanea della Sorbona Florian Michel, mai si risolverà.

 

La conferma è arrivata la scorsa settimana con un articolo del Nyt in cui la laïcité è stata messa ancora sul banco degli imputati, prendendo come pretesto un dibattito avvenuto a Poitiers nell’ottobre 2020 tra la segretaria di stato per le Politiche giovanili, Sarah El Haïry, e alcuni giovani delle periferie refrattari al principio di laicità. Nell’intervento critico del quotidiano newyorkese si dice che i ragazzi incontrati dalla ministra non condividevano la “sua visione della Francia in quanto nazione ostentatamente laica, daltonica e dell’uguaglianza delle opportunità”. Subito dopo, si racconta anche un episodio che dimostrerebbe lo scollamento tra una fascia della gioventù e la République: quando Sarah El Haïry ha iniziato a intonare l’inno francese, la Marsigliese, una ragazza musulmana velata si è rifiutata di cantare.

 

“È una lettura estremamente basica, che nega la nostra storia e la nostra identità. ‘Daltonica’ significa che non c’è nessuna sfumatura, nessuna complessità, nessuna diversità. Ed è l’estremo opposto dell’universalismo”, ha reagito venerdì sul settimanale Marianne Sarah El Haïry, prima di aggiungere: “La lettura che il New York Times fa del nostro paese e della nostra società è binaria. O si è intersezionali pro-woke, o si è soltanto reazionari repubblicani. Ma se si analizza la nostra storia, ci si rende conto che è fatta di bei momenti e di altri più complicati, è fatta di vittorie e di sconfitte. È fatta soprattutto di qualcosa che ci riunisce e dunque di una lettura che non si basa sulla differenza o sulla comunità a cui si è legati, a differenza degli americani. Oggi, purtroppo, alcuni hanno deciso di indossare gli occhiali americani per osservare la nostra società, nonostante la nostra storia e il nostro retaggio siano diversi”. Rievocando il dibattito di Poitiers, la ministra denuncia la pericolosa sindrome della vittimizzazione di ispirazione americana, che è all’opposto della “promessa universalista” francese: quella di “lottare contro le discriminazioni, perché siamo un corpo unico, una nazione e i nostri destini sono legati”. E ancora: “Non possiamo definirci attraverso la nostra discriminazione, ma al contrario attraverso la forza del collettivo a cui apparteniamo, la Francia”.

 

Nata da genitori franco-marocchini, la El Haïry mette in guardia i giovani dalle nuove mode ideologiche anglosassoni, e in particolare dal razzialismo, che considera “il razzismo di oggi”. “I giovani devono rendersi conto che i discorsi vittimistici li condannano. Quando si ha 14-15 anni e la sola energia in proprio possesso è dirsi di essere multivittime di multidiscriminazioni perché si vive in Francia, non c’è più energia per intraprendere, per credere nel proprio futuro, per studiare. Mi considero antirazzista, ma non per questo sono favorevole alle ‘riunioni non-miste razzialiste’”, ha spiegato a Marianne la El Haïry. Prima della segretaria di stato per le Politiche giovanili, Elisabeth Moreno, ministra francese per le Pari opportunità, provò su Bloomberg a spiegare agli americani che la Francia ha una storia diversa rispetto agli Stati Uniti e che l’universalismo e la laicità sono le bussole indispensabili della République. “La cultura woke è molto pericolosa e non bisogna importarla in Francia. L’universalismo francese è una filosofia che riconosce le persone per come sono, e non perché sono donne, Lgbt+ o di una diversa etnia”, disse la Moreno. Non bastò per convincere i media anglosassoni. E non basteranno nemmeno le parole di Sarah El Haïry.

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