Un libro

Quattro Americhe, una guerra civile fredda

Paola Peduzzi

Cosa vede l'America quando si mette davanti allo specchio? Il saggista George Packer ha cercato una risposta, partendo da quel che ha visto lui, ricordandosi di "non esagerare" e arrivando a delinerare l'ultima, migliore speranza della democrazia

George Packer, uno degli imprescindibili narratori dell’America contemporanea, si è messo davanti a uno specchio, si è portato appresso tutto quel che sa e  sente del suo paese, e s’è chiesto: cosa siamo diventati? La risposta l’ha scritta nel suo ultimo saggio, “Last Best Hope”, uscito ieri negli Stati Uniti, intimo e universale come tutto quel che scrive Packer. Già dal titolo si può intuire che ciò che l’autore vede riflesso non è del tutto rassicurante, anche se non tutto è  perduto. Packer ritorna su un tema che aveva descritto, avvalendosi di splendide   storie americane, nel saggio pluripremiato “Unwinding”: la fine della promessa implicita dell’identità nazionale, il contratto culturale che dice che se lavori tanto, se sei un buon cittadino, ci sarà un posto per te, anche un posto comodo, migliore di quello che avevano avuto i tuoi. Quel contratto è compromesso, diceva Packer, e in “Last Best Hope” fa un passo ulteriore: l’America non sa più autogovernarsi, scrive, “cosa vediamo nello specchio? Un paese instabile, istituzioni politiche pericolanti, un popolo diviso in tribù inclini alla violenza  – il tipo di nazione che abbiamo sempre pensato di poter salvare. Nessuno verrà a salvare noi però; siamo la nostra ultima, migliore speranza”.

L’autogoverno, secondo Tocqueville, era “un’arte” che andava imparata, “è la democrazia in azione  – scrive Packer  – non soltanto i diritti, le leggi, le istituzioni, ma quel che le persone fanno insieme, le consuetudini e le capacità che ci permettono di portare avanti le cose”. Per imparare ed esercitare quest’arte non servono soltanto le elezioni, i media, le procedure: serve “la fiducia, che abbiamo perso”. In una conversazione con il direttore dell’Atlantic Jeffrey Goldberg che pubblica gli articoli di Packer e ha messo online un estratto di “Last Best Hope”, Packer dice: “Noi americani non è che solamente non andiamo d’accordo. Non è che abbiamo soltanto valori diversi, narrazioni diverse e percezioni diverse della verità. Noi ci vediamo l’un l’altro come delle minacce morali, incompatibili con quel che crediamo giusto, e ci riempiamo di fantasie su un paese in cui queste minacce non esisteranno più. Non per fare il tragico, ma questo tipo di pensiero di solito lo troviamo nei paesi alle prese con una guerra civile”. Cioè pensi che ci sarà una guerra civile?, chiede Goldberg. “No, non con una violenza su larga scala, direi più una guerra civile fredda che erode la democrazia, rende ogni elezione esistenziale, e ci impedisce di risolvere i problemi più grandi, portandoci infine al declino”.

Packer tende al dramma, è il primo a saperlo e quando analizza quel che vede riflesso nello specchio, cioè un’enorme e per lui quasi incolmabile diseguaglianza (tra “due classi, i professionisti in ascesa e i lavoratori che stanno affondando”), si dice da solo: “Non esagerare!”. Ma quando abbandona il tono declinista e si avventura nei tormenti culturali e sociali, Packer diventa affilato, preciso, a volte persino brutale. Descrive così quelle che chiama le “quattro Americhe”: la “Free America”, libertaria  individualista in modo quasi irresponsabile (la pandemia l’ha mostrata nella sua interezza); la “Real America”, isolazionista, delle aree rurali, in declino perché queste zone sono state tradite dalla promessa globalizzatrice così come da quella isolazionista, e sono impoverite, arrabbiate, intolleranti; la “Smart America” dei professionisti rampanti, dove conta soltanto il merito che per Packer è molto diverso dal “lavorare duro e trovare un posto nel mondo”, bensì è diventato un modo per passarsi di padre in figlio uno status, una via preferenziale per gli atenei migliori, un’élite familistica che viene prima di ogni altra cosa; la “Just America”, che è quella in cui “il linguaggio e l’identità contano più di ogni condizione materiale”, e in cui la nazione “è meno un progetto di autogoverno da migliorare e più il luogo di errori continui da combattere”. In questa America “giusta” (o forse sarebbe più preciso definirla “ingiusta”, scrive Packer), ogni relazione è una relazione di potere, c’è sempre un gruppo che sottomette un altro, e l’altro si ribella, e così via fino a uscire fuori dalla stessa “struttura dell’illuminismo”, perché in questa impalcatura – “oggettività, razionalità, scienza, uguaglianza, libertà dell’individuo”, la definisce l’autore – molti ravvedono i semi dell’imperialismo e del razzismo. “La politica identitaria – scrive Packer – prevede l’uguaglianza per dei gruppi, non per degli individui, e richiede interventi per colmare le diversità tra gruppi, il che porta spesso a nuove forme di discriminazione”. Così diventa difficile creare delle coalizioni se devi “sempre correggere come parla l’altro” (la descrizione della fissazione per l’utilizzo di parole deformate vale tutto il libro), e così non ci accorgiamo che in molte città sono stati gli abitanti afroamericani a fermare le proteste che volevano abolire la polizia, perché non chiedevano meno sicurezza, ma una sicurezza gestita in modo migliore. Ripetendosi ancora una volta “non esagerare!”, Parker puntella la parte sulla Just America scrivendo: “Ha cambiato moltissimo il modo con cui gli americani pensano, parlano e agiscono, ma non le condizioni in cui vivono”.

Alla fine del viaggio in queste quattro Americhe, due conservatrici e due liberal, Packer è diverso dallo “straniero” che vedeva riflesso nello specchio all’inizio. Dice che forse gli americani stanno realizzando che una guerra dei Trent’anni moderna tra rossi e blu non è il modo migliore per mantenere una democrazia solida,  forse si fa più insistente il desiderio di fare qualcosa che vada al di là dell’individuo o del gruppo di appartenenza, forse la consapevolezza di una nazione matura è la capacità di superare quel che scriveva Walter Lippmann un secolo fa: “Gli uomini farebbero di tutto pur di non governare se stessi. Non vogliono responsabilità”. Non resta che provare, dice Packer, l’ultima e migliore speranza siamo noi.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi