Che cosa resta del raid contro Osama

Daniele Raineri

L’operazione per eliminare Bin Laden nel 2011  dieci anni dopo non è più quel successo  spettacolare che credevamo. Tutti, da Obama ai Navy Seal agli afghani,  ne escono peggio (tranne i talebani)

Sono passati dieci anni dal raid americano per catturare o uccidere Osama bin Laden, il capo di al Qaida che nel 2001 organizzò e ordinò gli attentati contro New York e contro il Pentagono. All’epoca avevamo creduto che il successo spettacolare di quell’operazione fosse la prova della potenza inesorabile degli Stati Uniti. Le forze speciali di stanza in Afghanistan salgono su due elicotteri speciali e quasi invisibili ai radar, attraversano in volo il confine con il Pakistan, scendono sulla villa fortificata di Bin Laden, uccidono lui e alcuni dei suoi, prendono tutto il materiale che riescono a prendere ma hanno i minuti contati e devono lasciare la villa il prima possibile, distruggono con una bomba uno dei due elicotteri che aveva avuto un guasto e non poteva più volare, caricano a bordo il cadavere in modo che i tecnici di laboratorio possano confermare che è davvero il terrorista, decollano, scendono di nuovo a terra prima del confine per riempire i serbatoi di carburante perché sono rimasti a secco, attraversano in volo il confine e sono di nuovo nella base in Afghanistan mentre negli Stati Uniti a Washington a nove fusi orari di distanza tutti quelli che contano alla Casa Bianca chiusi di sotto nella Situation Room tirano un sospiro di sollievo dopo otto mesi di preparativi segreti. 

 


Un successo spettacolare si diceva. In realtà il tempo che è passato ha guastato quella storia e le molte storie collaterali che circondano quell’operazione. Il presidente americano Barack Obama autorizza la missione in una riunione di venerdì 29 aprile 2011. E’ una decisione azzardata e piena di incognite e a causa del meteo le forze speciali lanciano il raid soltanto domenica 1 maggio. In mezzo c’è la serata di gala di sabato 30 aprile, è una tradizione, è la cena per i corrispondenti alla Casa Bianca dove il presidente interviene con un monologo pieno di battute. E’ la famosa cena dove Obama prende di mira Donald Trump, che a quell’epoca era il grande megafono di quel movimento di complottisti che credeva che Obama non fosse nato negli Stati Uniti e quindi non avesse il diritto di essere presidente. E’ famosa perché in quell’occasione Trump, umiliato davanti a tutti, comincia a pensare sul serio di candidarsi a presidente degli Stati Uniti – e quando lo diventerà farà di tutto per cancellare le leggi e le riforme del predecessore. Obama aveva appena fatto trovare il proprio certificato originale di nascita, l’aveva presentato alla stampa due giorni prima e aveva detto di avere faccende più serie delle quali occuparsi. La cena di gala si trasforma in un tiro al bersaglio contro Trump. Comincia Obama: “Ora che ho mostrato il certificato, lui potrà tornare a occuparsi delle cose che contano: siamo mai stati sulla Luna?”. Seguono comici che salgono sul palco e non si tengono: dice che forse Trump si presenterà come candidato repubblicano, credevo che si sarebbe presentato come barzelletta; Trump è il proprietario di Miss America e questo aiuterà i repubblicani a trovare una vicepresidente; Trump dice di avere un rapporto eccellente con i neri, e a meno che non stia parlando della famiglia Neri scommetto che si sta sbagliando. Nel 2011 la cena di gala diventa subito una prova del sangue freddo del presidente Barack Obama e contribuisce alla mistica presidenziale che negli Stati Uniti – e nel resto del mondo – circonda quel ruolo. Tre giorni dopo tutti sono al colmo dell’ammirazione. Il presidente è un uomo che lancia un’operazione militare per prendere il terrorista più ricercato della storia e in mezzo ci infila con naturalezza un monologo da stand up comedian.

 


Dieci anni dopo invece, la cena con le battute debolucce è diventata la partenza della corsa politica di Trump, un presidente che poi deciderà di annullare quella tradizione – non l’ha mai fatta, la considerava una cosa scema e poi avrebbe dovuto celebrare i corrispondenti alla Casa Bianca che lui detestava – e che dirà agli americani che il raid in Pakistan è stata una messinscena. Il 13 ottobre 2020, a pochi giorni dal voto, Trump rilancia su Twitter una teoria del complotto pazzesca che sostiene questo: il raid fu una finzione orchestrata dall’Amministrazione Obama e pochi mesi dopo Joe Biden ordinò l’uccisione di una squadra di Navy Seal per eliminare possibili testimoni di quel complotto. Vorremmo poter dire che nessuno può essere così scemo da prendere questa storia per vera, ma è il 2021 e  abbiamo fatto tutti un corso accelerato di psicologia delle masse e per molti questa sarà la verità – confermata da un tweet del presidente americano in persona, che ha un accesso privilegiato a informazioni che pochi altri hanno. L’America può raggiungere la Luna e può trovare Bin Laden, ma molti americani non credono a questi successi spettacolari – e spesso sono gli americani che si considerano più “patrioti”. 

 

Quella notte i tecnici prendono campioni di Dna dal cadavere, confermano che è di Bin Laden, scattano fotografie, poi lo fanno decollare di nuovo dall’Afghanistan verso una nave da guerra americana in navigazione nell’Oceano indiano. Bin Laden è sepolto in mare, in modo che la sua tomba non diventi un polo d’attrazione per gli ammiratori. In teoria venerare una tomba sarebbe vietato dalla corrente rigida della religione musulmana alla quale Bin Laden aderiva, ma gli americani non vogliono correre rischi. Non ci sono fotografie pubbliche di Bin Laden da morto perché la tecnica delle forze speciali per abbattere qualcuno è sparargli due colpi, double tap, che devono entrare nel bersaglio a pochi centimetri di distanza e invece i Navy Seal, che in teoria sono professionisti impassibili impegnati nella missione più importante della loro vita, si lasciano andare e crivellano di proiettili Bin Laden. Il volto è così sfigurato che da dieci anni le foto restano in qualche archivio del governo americano e questo alimenta la demenza in stile Qanon. Quando portano fuori dalla casa il corpo del capo di al Qaida lo sdraiano su una lettiga e un soldato alto un metro e novantacinque come lui gli si allunga accanto per rassicurare gli spettatori in collegamento dalla Situation Room, è Bin Laden, ma non ci sarà la certezza della sua identità fino alle analisi in Afghanistan. 

 


L’uccisione di Bin Laden nel 2011 è l’inizio di una crisi per i Navy Seal, che incontrano un ostacolo per il quale non sono preparati: diventano mainstream. Film, romanzi, saggi, videogiochi, serie televisive, calendari, video tutorial per avere gli addominali come i Navy Seal o per i manager che vogliono prendere decisioni con la stessa sicurezza dei Navy Seal o per imparare a nuotare come i Navy Seal. Da sempre in tutti gli eserciti del mondo le forze speciali tendono a mettersi un gradino sopra a tutti gli altri militari, “too cool for school”, troppo fighi per andare in classe, e rimarcano questa cosa con tutta una serie di segni d’identificazione che agli altri reparti sono proibiti. Dovrebbero essere invisibili, diventano un’icona pop. Le scarpe da hiking invece che gli anfibi, le barbe e i capelli lunghi fuori ordinanza, le kefia, le armi verniciate, i simboli disegnati sui giubbetti (come il teschio del Punitore, che i Seal usavano a Ramadi in Iraq nel 2006: oggi in Iraq un soldato iracheno su due ha addosso una spilletta con il teschio del Punitore), le maniche della divisa che d’estate sono tagliate invece che arrotolate. Ma la celebrità colpisce i Navy Seal alla testa. Segretezza e discrezione spariscono, si moltiplicano i casi aberranti, le accuse di crimini di guerra, i processi, gli episodi disonorevoli: un prigioniero accoltellato a sangue freddo in Iraq con foto ricordo dell’esecuzione, un cecchino che spara sui civili per divertimento. Un distaccamento viene mandato a casa dall’Iraq in anticipo sulla rotazione perché si è fatto un bar privato e ci fa le feste (i soldati americani nei teatri di guerra non possono toccare un goccio d’alcol). Molti Seal sono inorriditi dall’andazzo, accusano i compagni di “vendere il tridente”, quindi di usare il simbolo dell’unità e del loro addestramento selettivo che costa milioni  di dollari al governo americano per fare soldi. Cominciano a circolare le barzellette sui soldati speciali che non riescono a fare più nulla senza poi farci un best-seller. Nel 2017 una colonna di Navy Seal in trasferta in California mette sui blindati le bandiere elettorali di Trump, perché incarna meglio l’ideale politico di quel distaccamento. E pensare che tre anni dopo Trump dirà che il raid in Pakistan, il capolavoro dei Seal, non è mai successo davvero. 


Il nome dell’operazione per catturare o uccidere Bin Laden è “Neptune’s Spear”, l’idea è dell’ammiraglio William McRaven, capo delle forze speciali in Afghanistan, mentre guarda una statuetta di Nettuno comprata a Venezia. McRaven, una splendida figura di ufficiale che allora era a capo delle operazioni segrete dei Seal, il tipo di uomo che spiega che è necessario fare il letto tutte le mattine appena alzati perché così si imposta bene la giornata, spiega in una lunga testimonianza appena uscita sulla rivista del centro antiterrorismo di West Point che la missione per catturare Bin Laden era sul punto di diventare impossibile da un giorno all’altro. Il capo di al Qaida era nascosto in una villa fortificata e con muri alti in una valle del Pakistan appena fuori dalla città di Abbottabad. Per arrivare fino a lì gli uomini delle Forze speciali avrebbero dovuto volare con gli elicotteri da una base americana in Afghanistan e violare così lo spazio aereo pachistano. Di avvertire gli alleati pachistani non se ne parlava nemmeno, perché gli americani sospettavano che gli alleati-non-così-alleati avrebbero potuto avvertire Bin Laden: possibile, era la domanda, che l'intelligence pachistana non si fosse mai accorta di quella villa a poca distanza da basi militari? Gli alleati pachistani sono scemi o fanno soltanto finta di essere scemi? Nel dubbio si era convenuto di trattare il Pakistan come un paese non alleato: la missione contro Bin Laden era anche un’incursione oltre confine in un territorio ostile. Per questo motivo si decise che il raid sarebbe avvenuto nelle notti senza luna, ma così si restringevano in modo drammatico le possibilità sul calendario. Le notti più scure arrivano soltanto una volta ogni ciclo lunare di 28 giorni e questo vuol dire che se per ipotesi si perde la notte favorevole tocca aspettare il ciclo lunare successivo. E qui c’è un secondo problema. Per non farsi scoprire subito dai pachistani si scelse di usare elicotteri speciali che sono più silenziosi di quelli normali e che offrono una traccia radar molto più piccola, ma soffrono più del dovuto l’aria rarefatta. Il problema è che a fine aprile e inizio maggio si è quasi nella stagione calda. Se qualcosa fosse andato storto allora sarebbe toccato rimandare a inizio giugno, ma non si poteva perché a giugno la temperatura dell’aria è già troppo alta per operare in sicurezza con quel tipo di elicotteri. E nemmeno si poteva aspettare il ritorno del freddo, Bin Laden era l’uomo più ricercato del mondo e non c’era alcuna garanzia che sarebbe rimasto in quella villa a lungo. Per quel che ne sapevano gli americani, avrebbe potuto lasciare quel nascondiglio anche il giorno dopo. Sempre che si trattasse davvero di lui. 

 


A leggere le testimonianze reali di chi allora era coinvolto nell’operazione per trovare Bin Laden, colpiscono l’ambiguità e l’incertezza e il margine di errore enorme. La Cia non riesce semplicemente a capire in sei mesi di sorveglianza se l’uomo che ogni giorno esce a fare una passeggiata all’aperto di pochi minuti è il capo di al Qaida oppure no. La villa fortificata ha muri troppo alti, l’angolazione rende tutto difficile, persino il terrazzino al terzo piano è coperto da un muro anche dal lato che affaccia verso le montagne – in teoria la vista migliore per gli occupanti della casa, se non ci fosse un muro anche lì. Quel cemento convince i partecipanti che dentro la villa si nasconde qualcuno di incredibilmente importante. Non è connessa a internet, non ha la luce elettrica, non entra e non esce quasi mai nessuno. Bruciano persino la spazzatura all’interno, per non dover mai uscire. I telefoni dei corrieri di Bin Laden non si accendono mai a meno di centocinquanta chilometri da quella villa e  anche questa a suo modo è una conferma: la villa riposa con discrezione in una  zona  che per gli intercettatori della Cia che in Pakistan seguono ogni sorta di traccia è bianca, priva di segnali interessanti. E’ il segnale più interessante di tutti. Gli americani mandano un dottore pachistano a bussare al cancello di ferro nell’ambito di una campagna di vaccinazione, ma non scopre nulla – e ancora oggi è in prigione per spionaggio, i pachistani non hanno perdonato questa collaborazione. Il capo della Cia, Leon Panetta, chiede esasperato ai suoi di fare qualsiasi cosa per avere un’identificazione positiva, anche mettere qualcuno su un albero con un paio di binocoli. Al massimo arriverà a dire al presidente Obama che c’è una probabilità tra il quaranta e il sessanta per cento che si tratti davvero di Bin Laden e che anche se avessero più tempo a disposizione non riuscirebbero a capire chi è quell’uomo. Scherza persino: “Nei film avevo visto che la Cia riesce a fare questo tipo di cose”. E’ una frase che andrebbe distribuita alla folla immensa che pensa al mondo come a una matrice dove tutto è sotto il controllo di manovratori misteriosi. Senza internet e per colpa di un muro di cemento, il capo della Cia non riesce a stabilire se l’intelligence americana che ha un budget da cinquanta miliardi di dollari l’anno ha trovato oppure no Osama bin Laden. 


Colpisce, nei racconti di chi c’era, che le valutazioni offerte a Obama sono sobrie e pessimiste. Le cose sono dette come stanno. Nessuno ha certezze definitive. Quando il presidente chiede all’ammiraglio McRaven se può dare l’assalto alla villa di Bin Laden quello risponde che prima gli servono tre settimane di prove e di test e di assalti il più possibile realistici per rispondere con sicurezza. C’è una frase che adesso, dieci anni dopo, spicca nella testimonianza di McRaven. Dice al presidente che ogni notte in Afghanistan i suoi uomini fanno assalti come quello alla villa di Bin Laden, per prendere terroristi o guerriglieri talebani. Questo succedeva nel 2011, viene da pensare alla situazione come sarà adesso che i soldati americani stanno per lasciare il paese. 


Quando nella Situation Room i presenti ascoltano la frase “tra il quaranta e il sessanta per cento” a proposito dell’identificazione di Bin Laden, credono sia la fine dell’operazione perché Obama dirà di no. Sono passati dieci anni e conosciamo molte più cose a proposito di quel raid del 2011, il velo di segretezza è in parte caduto, molte persone che furono coinvolte da vicino oggi raccontano com’è andata. Adesso sappiamo che fu un azzardo molto più rischioso e molto meno calcolato di quel che credevamo. Adesso sappiamo che la macchina americana che si occupava della missione – intesa come l’insieme di intelligence, militari e Casa Bianca – era molto più fragile ed esposta ai fallimenti di quel che credevamo. Adesso sappiamo che persino Obama, il presidente calcolatore che odiava assumersi rischi e che aveva fatto della cautela la sua dottrina in politica estera – “Don’t do stupid shit”, non fare stupidaggini, come disse in un’intervista all’Atlantic che è diventata un suo manifesto – quando autorizzò la missione in pratica fu costretto a fare una scommessa enorme. 


In tutte le riunioni, con i militari, con l’intelligence e alla Casa Bianca, il protagonista centrale è un modellino in scala della villa fortificata di Abbottabad che serve a studiare cosa fare e a prendere le decisioni. E’ preciso fino al dettaglio più minuscolo. Gli arbusti, il colore, tutto. A una riunione qualcuno chiede perché c’è filo spinato lungo tutto il muro tranne che in un punto, la risposta è: perché anche nella realtà non c’è filo spinato in quel punto. Gli specialisti che hanno costruito il modellino ignorano a cosa serva, lo capiranno soltanto quando vedranno le immagini in tv.  

 


Nel 2001, quando Osama bin Laden organizzò e ordinò i raid contro Manhattan e contro il Pentagono che uccisero tremila persone, la sua organizzazione contava circa trecento seguaci. Oggi secondo le valutazione degli esperti al Qaida conta migliaia di seguaci, sparsi un po’ dappertutto e nel 2020 ha rivendicato più di settanta attacchi suicidi soltanto in Afghanistan. E’ un altro pezzo di quel successo spettacolare del 2011 che non suona più bene come dieci anni fa. I talebani, che proteggono al Qaida, oggi sono in posizione dominante e per un rovesciamento della storia negoziano accordi discreti con gli americani. In un recente reportage di Associated Press un anonimo ufficiale americano spiegava che “i talebani sono un alleato utile contro lo Stato islamico perché conoscono bene le piste sterrate e le grotte negli angoli più remoti del territorio”. E secondo uno scoop di Reuters di venerdì scorso quest’ultimo anno i talebani hanno protetto le basi dei contingenti militari stranieri dagli attacchi “di altri gruppi jihadisti”, che vuol dire: dallo Stato islamico. 


Venerdì 29 aprile, il giorno prima della cena di gala e due giorni prima del raid, la moglie di Bill Daley, capo di staff di Obama, tormenta il marito – racconta lui al sito Politico. “C’è qualcosa che non va? Sembri strano. C’è qualche problema tra noi? Qualche cosa di personale? O altro?”. Daley porta la moglie nel bagno del primo piano, apre il rubinetto del lavandino, si chiude con lei dentro al box doccia e le sussurra nell’orecchio: “Stiamo per andare a prendere Bin Laden”. 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)