Filippo, l'ultimo principe

Giuliano Ferrara

Novantanove anni di spavalda allegria regale per “l’equilibrio e la felicità della vita nazionale”

Stupenda telenovela, e documento politico raffinato, la serie Netflix sulla corona inglese ha scrutato psicologie, umanizzato ritratti istituzionali, sceneggiato politica e simboli nazionali britannici, adombrato segreti e passioni anche tragiche nella forma sublime del royal gossip, ma non ha rinunciato a raccontare una certa impenetrabile durezza della funzione sovrana in quanto ditta e famiglia. Il compianto Filippo in tutto questo era una nota di spavalda allegria, di tollerante tormento coniugale, di allergia blanda e sorvegliata alle costrizioni del ruolo, per il resto magnificamente interpretato in settantaquattro anni di matrimonio e servizio pubblico e privato.

       

Si capiscono all’atto del suo trapasso gli otto giorni di lutto, il rinnovarsi rigoroso e unanime delle convenzioni del dolore nazionale, e quest’idea rilanciata da Boris Johnson di una monarchia che si prodiga per l’equilibrio, come ha detto, e la felicità della vita nazionale. I britannici cambiano come e più degli altri, ma stabilità e durata, evoluzione contro rivoluzione, sono la struttura profonda del loro vivere civile. Aristocrazia e popolo, chiesa d’Inghilterra e corporazioni, classi dirigenti e sistema parlamentare trovano nella monarchia e nella sua ritualità, sia nel registro alto degli affari di stato sia nella casistica squinternata di ogni vita di famiglia, un ancoraggio e un vincolo che forse non saprebbero più spiegare razionalmente a una società ipersecolarizzata, ma c’è. Fidanzato, marito, padre, nonno e bisnonno e poi soldato, uomo di mare e di sport, tombeur de femmes e compagno lealista di una Regina seguita sempre a un passo di distanza e con le mani raccolte dietro la schiena, consigliere modernista e supremo gaffeur consapevole degli effetti del suo humour, Filippo, come tutti più o meno sanno, era il frutto di una formazione giovanile spietata e dell’educazione colta e sensibile, ma cinica al punto giusto, del suo padrino Mountbatten. In una dinastia straniera nelle origini del casato, che scelse di anglicizzare il nome in Windsor durante la Grande guerra, il marito di Elisabetta II o Lilibeth portò ulteriori complicazioni greche e danesi, per non dire dello zio e padre adottivo Mountbatten-Battenberg, un melting pot europeo in cui si è realizzata la fissità identitaria di una Casa reale che guida le altre monarchie superstiti.

       

Novantanove anni sono un numero pressoché perfetto, e un declino e tramonto personali nel corso di una pandemia combattuta e parzialmente piegata anche dallo spirito nazionale britannico rasenta la perfezione, per quanto profondo possa essere il dolore di famiglia amici e sudditi i più fervorosi. Il vichingo a corte ha passato la sua lunga vita a farsi riconoscere e a nascondersi per quello che era e che doveva apparire, un esercizio di potere e di immagine vertiginoso che ha la forza del simbolismo scespiriano (il Kaiser nel 1917, quando rinunciarono al titolo tedesco e si ribattezzarono dal nome del castello avito, li bollò astioso come “le allegre comari di Windsor”). Suscitò scandalo quando disse amabilmente agli aborigeni australiani del Commonwealth, più o meno: “Mi dicono che qui combattete ancora con le lance e con le frecce”, ma era solo un’espressione del wit, quel carattere inglese che fa “l’equilibrio e la felicità della vita nazionale” secondo BoJo.

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.