Marine americani nella provincia di Logar, in Afghanistan (foto LaPresse)

Ecco la “June Surprise” contro Trump

Daniele Raineri

Il mezzo milione di dollari in mano ai talebani, i tre marine morti, la mano russa

Trump ha sempre detestato la questione Afghanistan e la odierà ancora di più adesso che si è trasformata in una “June Surprise”, capace di infliggere danni enormi a una campagna elettorale che va già male – che va male è lui stesso a dirlo. Da anni il presidente americano vuole un accordo di pace spettacolare con i talebani e un ritiro molto rapido delle (poche) truppe rimaste nel paese per entusiasmare la sua base elettorale. “Vedete, avevo promesso che avrei messo fine alle guerre senza fine dell’America ed è quello che ho fatto”, sarà il suo annuncio tra qui e novembre. Però intanto salta fuori che un’unità dell’intelligence militare della Russia – la 29155, la stessa che si occupa degli affari più sporchi in Europa, come il tentato golpe in Montenegro e l’avvelenamento di un disertore a Londra – offre denaro ai talebani se ammazzano soldati occidentali. E che (secondo il New York Times) questa informazione faceva parte del briefing d’intelligence che Trump ha ricevuto il 27 febbraio e da allora non è successo nulla, quando invece si sarebbe aspettata una reazione più o meno dura. Per ora questi pagamenti russi sarebbero stati collegati a un solo attacco che nell’aprile 2019 ha ucciso tre marine americani vicino a Bagram, una delle basi più grandi. E’ interessante notare che i tre soldati colpiti lavoravano assieme ai militari della Georgia, lo stato avversario della Russia che ha in Afghanistan un contingente di 800 uomini e che vuole entrare nella Nato. Se c’era un bersaglio attraente per i russi era quel misto di americani e georgiani.

 

A gennaio le forze speciali e l’intelligence americana avevano trovato mezzo milione di dollari in contanti dentro un covo talebano e poi avevano scoperto – anche grazie a confessioni di comandanti catturati – che erano di provenienza russa. Si sa da almeno tre anni prima di questo scandalo che la Russia è in contatto con i talebani e che secondo le accuse americane provvede loro armi e addestramento – il primo a dirlo fu il comandante americano in Afghanistan, John Nicholson, nel 2017 ma la sua denuncia non creò molta attenzione. Non si tratta di un livello di appoggio enorme da parte della Russia, ma di un’azione irritante per approfittare della vulnerabilità dei soldati occidentali in Afghanistan. I russi aiutano il jihad e non se ne parla, forse perché l’immagine di Putin è quella del condottiero che affronta le orde musulmane invece che pagarle. Il governo russo dice di avere soltanto relazioni politiche con i talebani. Del resto con il ritiro americano diventeranno la fazione più forte del paese.

 

Trump ha detto di non saperne nulla e poi il suo staff ha spiegato che le informazioni d’intelligence sono ancora troppo poco chiare per prendere decisioni (però nel frattempo Trump fa pressione per fare riammettere la Russia al G8). I tempi in teoria sono molto diversi. Il presidente americano ha un rapporto conflittuale con il briefing d’intelligence del mattino, dovrebbe essere quotidiano invece ora ce ne sono due a settimana. Sarebbe molto interessante sapere chi ha fatto arrivare questa informazione ai giornali, si parla di fonti europee – che non potevano non sapere che il risultato sarebbe stato dannoso per Trump. L’Afghanistan è una materia contaminante per il presidente americano, per quanto lui si sforzi di starne lontano viene risucchiato dai fatti. Un rapporto delle Nazioni Unite uscito a inizio giugno sostiene che i talebani mantengono le relazioni con al Qaida – in teoria il piano di Trump prevede che loro diventino la nuova forza antiterrorismo nel paese, capace di garantire la sicurezza dentro e fuori. Nel libro da poco uscito di John Bolton, il segretario di stato Mike Pompeo – che in pubblico è molto allineato al presidente – dice in una conversazione privata che Trump non capisce le idee dei repubblicani sull’Afghanistan e che ne uscirà schiacciato. “E se lo merita”, dice.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)