Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump come imperatore romano Nerone nella tradizionale sfilata di carnevale a Magonza, Germania (Foto AP / Michael Probst)

Effetto collaterale del trumpismo: la riscossa dell'Europa

Claudio Cerasa

Senza lo scontro avviato prima dalla Gran Bretagna e poi da The Donald, non saremmo riusciti a fronteggiare la crisi sanitaria ed economica di questi mesi con la consapevolezza che gli europei possono (e devono) essere padroni del proprio destino

Is Trump already too far behind Biden?”. Mancano poco più di quattro mesi alle elezioni americane e da qualche tempo a questa parte gli osservatori di tutto il mondo – il virgolettato che avete letto all’inizio di questo articolo è il titolo di una bellissima pagina pubblicata sabato scorso dal Financial Times – si chiedono se ciò che inizia a essere non impossibile possa essere anche probabile. La domanda in questione, naturalmente, riguarda il futuro indecifrabile di Donald Trump, la cui approvazione nel suo paese oggi è scesa sotto il 40 per cento dei consensi totali, a un livello simile a quello registrato in passato da George H. W. Bush e da Jimmy Carter, gli ultimi due presidenti americani a cui è stato negato un secondo mandato. E il dato interessante da cui partire per un possibile ragionamento ha a che fare con un editoriale di fuoco dedicato al presidente in carica da un giornale che negli ultimi mesi aveva tentato in tutti i modi di difendere ciò che si poteva difendere del mandato di The Donald, cercando cioè di spiegare ai critici che ciò che Trump aveva fatto per l’economia americana era qualcosa che nonostante tutto aveva fatto bene all’America. Il giornale in questione è un giornale di area conservatrice, e stiamo parlando ovviamente del Wall Street Journal, e l’editoriale di fuoco arriva dopo una raffica di anti endorsement che alcuni pezzi da novanta del mondo repubblicano americano hanno rifilato al presidente repubblicano.

  

George W. Bush, lo ha riportato qualche settimana fa il New York Times, come nel 2016 ha fatto sapere alla sua cerchia di collaboratori di non avere alcuna intenzione di sostenere Trump. Lo stesso ha fatto sapere Mitt Romney, senatore ed ex candidato alla presidenza. Lo stesso ha fatto sapere la vedova del senatore John McCain, Cindy, che ha addirittura deciso di sostenere Joe Biden. Lo stesso, scrive sempre il New York Times, potrebbero fare Lisa Murkowski, una senatrice moderata dell’Alaska, e gli ex speaker della Camera John Boehner e Paul Ryan, oltre che l’ex segretario di stato americano sotto la presidenza Bush, Colin Powell. Molti di questi nomi già nel 2016 avevano bocciato Trump, e Trump in quell’occasione vinse lo stesso, ma la novità di queste ore è, come si diceva, la dura critica rivolta a Trump da chi in questi anni, come il Wall Street Journal di Rupert Murdoch, non ha fatto a meno in diverse occasioni di offrirgli sostegno.

 

Sintesi dell’editoriale del Wsj: “Trump è tornato a mostrare il suo volto peggiore e ha sprecato la sua possibilità di mostrare una nuova forma di leadership nella stagione della pandemia. Avrebbe potuto offrire realismo e speranza rispetto alla strada da percorrere e non lo ha fatto. Rispetto al caso Floyd, poi, Trump, che in passato ha anche predicato l’armonia razziale, in questa occasione non ha offerto una leadership empatica e, come si sa, gli americani non amano l’inimicizia razziale e vogliono che il loro presidente si impegni per ridurla. Trump, da tempo, continua a offrire tweet combattivi che si auto infiammano. E al momento non ha un’agenda per il suo secondo mandato, e neppure un messaggio da offrire che sia diverso dalla semplice idea di poter governare quattro anni in più. I suoi recenti eventi a Tulsa e in Arizona sono stati poi dominati da rimostranze personali. E in questi mesi non ha offerto nulla di nuovo a coloro che non sono già persuasi su come votare. Nel 2016 Hillary Clinton era impopolare come Trump, ma oggi la grande differenza rispetto a quattro anni fa è che Biden non è così impopolare come lo era allora la Clinton. E per questo il consiglio che stanno dando molti democratici a Biden è di fare il minimo indispensabile e di lasciare semplicemente che Trump ricordi agli elettori ogni giorno perché, gli elettori americani, non vogliono altri quattro anni di tumulti e di narcisismo. E se continuerà così, oltre che dirigersi verso una sconfitta, Trump avrà deluso i 63 milioni di americani che lo hanno mandato alla Casa Bianca”.

 

Si potrebbe concludere così, semplicemente sottoscrivendo le parole del Wall Street Journal. Ma a quattro mesi dalle elezioni presidenziali ci sono altri temi relativi ai quattro anni di Trump che meritano di essere illuminati e che riguardano un riflesso involontario che la presidenza Trump ha avuto su una parte importante del mondo non governata da Trump: la riscossa dell’Europa. Trump non ha fatto bene all’America ma paradossalmente il suo tentativo di far male all’Europa (che Trump ha sempre cercato di dividere, di indebolire, soffiando sul fuoco di ogni sua divisione e incoraggiando ogni possibile rivolta anti sistema) ha fatto bene all’Europa, che negli ultimi quattro anni, anche grazie alla politica isolazionista avallata dall’America, è stata costretta a fare quello che negli ultimi decenni non era riuscita a fare: crescere definitivamente, allontanarsi dalla mamma e iniziare a camminare con le proprie gambe. La rottura tra gli Stati Uniti e l’Europa – John Bolton, nel suo libro, magnificamente recensito su queste pagine a più riprese da Daniele Raineri, ha rivelato che Trump disprezza così tanto l’Europa da considerarla come la Cina, ma solo un po’ più piccola – è una rottura traumatica per cui non c’è molto da festeggiare. Ma è una rottura che ha messo l’Europa nelle condizioni di reagire, di darsi da fare e di cercare di capire in che modo creare una sua maggiore indipendenza e una sua più chiara autonomia. Senza la guerra lanciata all’Europa prima dalla Gran Bretagna (la Brexit arriva prima di Trump) e poi da The Donald (2016) l’Europa non sarebbe riuscita ad arrivare di fronte alla crisi economica e sanitaria di questi mesi con la consapevolezza che i guai dell’Europa sono guai che l’Europa deve risolvere per conto proprio (un tempo, il New Deal coincideva con l’aiuto dell’America all’Europa, oggi il New Deal coincide con l’aiuto che l’Europa offre a se stessa) e che gli europei hanno semplicemente il dovere di essere padroni del proprio destino (quattro anni fa parlare di condivisione del debito in Europa sarebbe stato come immaginare di avere Sarri alla Juventus: ops!).

  

Non si può dire che questo sia successo in modo chiaro sui temi di politica estera (basti pensare alla dialettica dell’Europa con la Cina, che non c’è, e basti pensare al peso dell’Europa in Africa, che non c’è) mentre si può dire che questo stia succedendo dal punto di vista della difesa dell’economia, della difesa del welfare e della difesa della democrazia liberale. E tra un atlantismo ammaccato (ma comunque necessario), un antiatlantismo minaccioso (quello della Cina) e antieuropeisti nel pallone (i cavalli di Troia del trumpismo non sono stati pochi in Europa ma in quattro anni di trumpismo nessuno di questi cavalli è riuscito a conquistare il proprio obiettivo) mai come oggi si può dire che il mondo sta facendo i conti con un fenomeno che fino a quattro anni fa era semplicemente un tabù: la centralità assoluta del modello europeo. Lo choc del trumpismo è uno choc che l’Europa si sarebbe volentieri risparmiata. Ma al di là della risposta possibile alla domanda del Financial Times – “Is Trump already too far behind Biden?” – una certezza oggi c’è: l’America che uscirà dal voto di novembre sarà un’America che per difendere il mondo libero potrà contare su un’Europa che certamente dovrà ancora crescere ma che finalmente è riuscita a fare quello che prima di Trump non le era riuscito: diventare grande.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.