Matteo Salvini e il vicepresidente del Consiglio di Libia Ahmed Maitig in un incontro a luglio (FotoLaPresse)

Cosa rischia il governo gialloverde a scherzare con il fuoco in Libia

Daniele Raineri

Se Roma sacrifica il suo ambasciatore per ingraziarsi il generale Haftar farà un grande favore al francese Macron

Roma. Negli ultimi tre anni in Italia ci sono stati quattro uomini che si sono occupati da vicino e con intensità del dossier Libia. Paolo Gentiloni, che da ministro degli Esteri ha spinto per portare Fayez al Serraj al governo di Tripoli (come poi è successo nel marzo 2016), Marco Minniti che da ministro dell’Interno ha stretto una serie di alleanze molto forti nell’area di Tripoli per bloccare le partenze dei barconi, il generale Alberto Manenti che da capo dell’Aise (i servizi segreti) ha fatto con discrezione parecchio lavoro diplomatico tra Roma, Tripoli e Bengasi e l’ambasciatore Giuseppe Perrone, che nel gennaio 2017 fu mandato da Gentiloni a riaprire l’ambasciata di Tripoli assieme a una quarantina di carabinieri del Reggimento Tuscania. Perrone, che parla bene l’arabo, fu il primo europeo a tornare in Libia dopo il grande reset post Gheddafi e ora è in vantaggio su altri diplomatici stranieri grazie al capitale di lavoro e di relazioni personali che ha accumulato. E’ anche il solo rimasto in attività del quartetto italiano menzionato, e nei prossimi giorni il governo gialloverde dovrebbe prendere una decisione su di lui.

  

Da qualche settimana corrono voci su una possibile sostituzione di Perrone. La Stampa ha scritto il 24 agosto che il governo Lega/Cinque stelle vive con ansia quello che sta succedendo in Libia, cerca “una nuova ripartenza” e quindi vorrebbe altri nomi – e per questo ha già mandato a casa il generale dei servizi Manenti. Due giorni fa il sito specializzato “Africa intelligence” ha detto che il governo italiano è pronto a “sacrificare Perrone per ingraziarsi il generale Khalifa Haftar”. Fonti diplomatiche non meglio specificate dicono ad Agenzia Nova che non è vero e che Perrone resterà a Tripoli.

  

La gestione del caso Perrone farà capire che cosa vuole fare il governo gialloverde in Libia. Il 4 agosto l’ambasciatore in un’intervento in diretta sulla tv libica ha detto che nel paese non ci sono ancora le condizioni per andare al voto il 10 dicembre (difficile dargli torto, considerato il regime di anarchia autodistruttiva che c’è in questi giorni a Tripoli, dove l’ultimo round di combattimenti tra fazioni ha fatto trenta morti) e la dichiarazione non è stata presa bene dall’asse formato dal governo francese del presidente Emmanuel Macron e dal generale Haftar, che controlla Bengasi. Macron e Haftar spingono invece verso le elezioni perché sono sicuri di poter scalzare il blocco del rivale al Serraj, che è sostenuto dall’Italia. E infatti l’8 agosto il portavoce del generale ha dichiarato Perrone “persona non grata ai libici”.

  

A questo punto il governo gialloverde deve scegliere: assecondare Haftar e richiamare l’ambasciatore? Sarebbe come darla vinta a Macron e quindi molto strano per un governo che in tutti gli altri campi si oppone al presidente francese. A novembre però c’è la grande conferenza di Sciacca, in Sicilia, che il governo italiano organizza nella speranza di contrastare l’influenza sempre più forte dei francesi sulla politica libica. Organizzare la conferenza senza l’ambasciatore Perrone sarebbe difficile, ma senza la partecipazione di Haftar sarebbe un fallimento. 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)