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Perché Europa e Usa non riescono più a comunicare

Giovanni Maddalena

Poco è cambiato per gli americani nei confronti dell’Europa e poco cambierà. Eppure qualcosa sta accadendo. Un incontro tra think tank a Washington lo svela

In contemporanea con l’assemblea della Nato a Bruxelles, a Washington DC si è svolto l’incontro tra vari think tank europei e i loro corrispettivi statunitensi, con molti interventi dei rappresentanti dell’attuale amministrazione americana. Per due giorni si è ripetuta la medesima scena. Parlamentari e rappresentanti del governo americano, ma anche specialisti, ricercatori e giornalisti americani spiegano con enfasi la strategia trumpiana, con quella confidenza assoluta nel capo che deriva dalla lunga storia del calvinismo. Il presidente, chiunque sia e comunque sia, è un po’ sempre il migliore rappresentante di Dio. Quanto all’attuale presidenza, la narrazione è che non bisogna guardare alle parole e ai tweet ma ai fatti. Nei fatti poco è cambiato nei confronti dell’Europa e poco cambierà: siamo sempre i migliori amici, anzi siamo parenti, stiamo solo lavando un po’ di panni sporchi di famiglia. Di fronte a questa narrazione la risposta degli europei è sempre la medesima: come si permette di insultarci e di attaccarci, per di più via social media? Come è possibile che il presidente dica che è più facile parlare con Putin che con noi? Come può aver twittato questo e detto quell’altro? L’incomprensione è profonda. Al di là degli argomenti, gli americani giocano la partita dei fatti contro le parole, gli europei quella delle parole contro i fatti.

 

Per uno studioso di comunicazione la questione è interessante perché si tratta del medesimo vizio, che è una forma contemporanea del nominalismo: tra i fatti e le parole c’è un vuoto, un abisso, di cui gli acculturati europei e i liberal americani vedono il lato verbale mentre i conservatori americani e le forze anti-élite europee vedono il lato esecutivo e fattuale.

 

In realtà la malattia è la stessa ed è il frutto della filosofia moderna, complicata dalla svolta linguistica della seconda metà del Novecento. La malattia è la separazione dei due piani, come se l’uomo non fosse una cosa sola, come se il mondo non parlasse, non avesse un significato, e le parole non fossero delle realtà. La separazione è il problema e la complicazione viene da molti anni di filosofia in cui si è pensato che ogni forma di conoscenza coincida con il linguaggio. Così che chi avesse voluto cambiare il mondo, avrebbe dovuto soprattutto e innanzi tutto cambiare linguaggio. Da qui la creazione, purtroppo non ancora finita, del linguaggio politicamente corretto, dei modi di dire da pensiero unico, dell’illiberalismo del pensiero liberal.

 

Tuttavia, la stessa idea è in fondo condivisa dall’altra parte. Coloro che vogliono fatti e non parole devono anche usare un linguaggio più duro e utilizzare un registro linguistico rude o grezzo. Insomma, per dimostrare la propria libertà e indipendenza dal pensiero unico e dalle sue espressioni verbali devono giocare la partita dei nemici del pensiero articolato e della parola.

 

Francamente non si vede una soluzione possibile a meno che, tra i panni sporchi di famiglia da lavare, qualcuno non metta anche quelli dell’educazione a una concezione del linguaggio meno nominalista e una più unitaria dell’essere umano, dei suoi fini e del significato delle sue azioni, verbali e non verbali. Ma non sembra essere nei programmi di nessun governo né di qua né di là dell’oceano.

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