Jacob Zuma (foto LaPresse)

In Sudafrica Zuma si dimette e cede alle pressioni del partito

Maurizio Stefanini

Il presidente annuncia il passo indietro dopo nove anni al potere. "Sono sempre stato un membro disciplinato dell’Anc”, dice. Ma le cose non stano esattamente così

Jacob Zuma si è dimesso. Da nove anni era presidente del Sudafrica ed era sopravvissuto a sette mozioni di sfiducia sostenute in Parlamento dall’opposizione. Da ultimo si era rifiutato di piegarsi alla richiesta di dimissioni che gli aveva rivolto la direzione dello stesso African National Congress (Anc), il suo partito. Passate 24 delle 48 ore dell’ultimatum che l’Anc gli aveva dato, mercoledì notte è apparso in tv. “Nessuno mi ha dato una spiegazione su ciò che avrei fatto. Lo trovo ingiusto, molto ingiusto”, ha protestato. Ma si è rassegnato: “Rinuncio da presidente della Repubblica, con effetto immediato. Anche se sono in disaccordo con la decisione della dirigenza della mia organizzazione, sono sempre stato un membro disciplinato dell’Anc”.

 

Quest’ultimo particolare non corrisponde troppo alla verità. Figlio di un poliziotto poi divenuto organizzatore della guerriglia contro l’apartheid, Jacob Zuma aveva scalato il potere proprio sventolando la propria etnicità zulu in contrapposizione alla tradizionale nomenklatura xhosa del partito. Nomenklatura che aveva contrattato il post-apartheid con il grande capitale anglofono e Zuma nella sua azione politica non aveva mancato di corteggiare i bianchi poveri di etnia boera, anch’essi spesso lasciati indietro da questo accordo. Ma il terzo “ingrediente etnico” che ha caratterizzato il suo “blocco sociale” sono stati i faccendieri indiani. Esponente dell’ala radicale dell’Anc, Zuma si costruì una base di manovra autonoma appunto grazie ai generosi finanziamenti di Chair Shaik, che nel 2005 finì in galera per fondi neri e corruzione. Zuma fu coinvolto nella vicenda e il presidente Thabo Mbeki lo costrinse a dimettersi da deputato e da vicepresidente. Proprio allora, su Zuma si abbatté pure un’accusa di stupro. Ma presentandosi come vittima di un complotto l'ormai ex presidente del Sudafrica aizzò la piazza davanti a tribunali e congressi del partito, riuscendo così non solo a farsi assolvere ma anche a obbligare Mbeki alle dimissioni, per prendere il suo posto.

 

A quel punto, sono diventati suoi mentori i Gupta, un clan celebre nello stato indiano dell’Uttar Pradesh per essere specializzato nella rivendita di scarpe usate e che era arrivato in Sudafrica nel 1993. Da un piccolo negozio di pc a Johannesburg, il clan aveva da lì edificato un impero finanziario da 6,6 miliardi di euro, con ramificazioni nel carbone, nell’uranio, nei media, nei trasporti. Esploso nel 2013, lo scandalo Guptagate riguarda il modo in cui questa famiglia, attraverso Zuma, sarebbe stata in grado di determinare la scelta dei ministri, oltre all’assegnazione degli appalti. Gli Hawks, la polizia anti corruzione, aveva fatto un raid nel quartier generale dei Gupta poco prima dell’ultimo discorso di Zuma, facendo tre arresti. Potrebbe essere stato questo evento a fare precipitare la decisione finale del presidente, per evitare che la sfiducia sfociasse in un impeachment con conseguenze penali.

 

Scandali a parte, Zuma è apparso comunque impotente nel gestire la crisi economica, da cui l’impennata dell’opposizione alle ultime amministrative. E l’Anc aveva chiaramente iniziato a preparare la Zexit – “Zuma’s exit” – quando lo scorso 17 dicembre aveva deciso di nominare nuovo leader Cyril Ramaphosa, ex-sindacalista divenuto un influente tycoon. Sarà lui a succedere alla presidenza.

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