La visita promozionale di Trump
Il presidente non ha consolato il Texas, ha promosso (male) il suo brand
New York. Nel 1927 il laconico Calvin Coolidge si rifiutò di fare visita alla popolazione del Missouri colpita da un’alluvione di proporzioni storiche. A nulla valsero le richieste del governatore, dei sindaci, dei soccorritori e degli opinionisti, convinti che la vicinanza fisica del presidente avrebbe acceso i riflettori sulla tragedia facendo incrementare le donazioni per l’assistenza agli alluvionati. Lui non volle nemmeno registrare un messaggio radiofonico e di scrivere un messaggio alla nazione che il popolare comico Will Rogers avrebbe diffuso. Il suo coinvolgimento diretto, pensava, avrebbe alimentato le richieste di un intervento sempre più massiccio dello stato federale nell’affrontare le emergenze locali. Era un’epoca pretelevisiva in cui la figura del presidente degli Stati Uniti non era ancora assurta al ruolo di “consolatore in chief”, funzione che oggi appare naturale per l’uomo più potente della terra. Clinton Rossiter, uno dei massimi teorici di una forma di divinizzazione dell’ufficio presidenziale, già nel 1956 scriveva che all’apparire di “un’alluvione nel New England, un tornado in Missouri, uno sciopero dei ferrovieri a Chicago, nel panico a Wall Street, la gente si rivolge quasi istintivamente alla Casa Bianca e al suo inquilino per ricevere aiuto e conforto”. Ogni presidente ha avuto i suoi momenti da consolatore. Clinton a Oklahoma City, George W. Bush sulle macerie della Torri gemelle e a New Orleans, Obama a Charlestone e Orlando.
In una certa misura si stratta di gesti formali e organizzati secondo canoni che tengono conto anche della gestione del consenso, ma è proprio l’aspetto protocollare a distinguere l’azione presidenziale. Il consolatore in chief va sul luogo, abbraccia i famigliari delle vittime, si commuove con loro, dice parole di conforto e vicinanza che simbolicamente sono le parole che l’intero paese rivolge ai suoi fratelli colpiti. Nel momento del dolore, il presidente incarna il sentimento della nazione, e nel tempo questa funzione è diventata un pilastro della figura presidenziale. La visita di Donald Trump in Texas ha dimostrato, se ce n’era bisogno, che il presidente non ha afferrato il suo ruolo. Organizzato in fretta e sull’onda della paura di un “Katrina moment” il brevissimo viaggio di Trump è stata una collezione di leggerezze e momenti demenziali. Il presidente non ha sfiorato le zone più colpite dall’alluvione e con il suo cappellino “Usa” – un avanzo di magazzino del merchandising della campagna elettorale – è passato rapidamente da Corpus Christi, città costiera messa a durissima prova dall’uragano Harvey ma che è stata risparmiata dalla devastazione biblica che ha invece travolto Houston. La prima osservazione che ha fatto davanti alla gente radunata è la stessa che fa quando sale sul palco prima di un comizio: “Che folla! Che partecipazione!”. Trump non solo non ha incontrato i famigliari delle vittime, ma non ha nemmeno fatto riferimento ai morti, non ha suggerito momenti di silenzio, non ha fatto e detto nulla che mostrasse empatia, nemmeno per finta. Non è andato in Texas come consolatore ma come eterno candidato in cerca di consenso. Di consolazione e speranza non si è vista nemmeno l’ombra.
Nel centro di coordinamento dei soccorsi ad Austin, la capitale, ha ripetuto ancora una volta che “nessuno ha mai visto niente del genere”, per sottolineare le capacità inusitate di chi sta facendo fronte all’emergenza, e ha predetto che “ci congratuleremo gli uni con gli altri quando tutto questo sarà finito”. Brock Long, il capo della Fema – l’equivalente della Protezione civile – che sta coordinando in condizioni estreme uno sforzo titanico ha detto, è stato descritto come “un uomo che è diventato davvero famoso in televisione negli ultimi due giorni”. Nel tour promozionale nei luoghi del disastro ogni cosa si può misurare in termini di popolarità e prestigio. I cinici sanno che ogni politico in queste situazioni ha almeno un occhio rivolto all’immagine di sé che sta proiettando davanti al mondo che guarda con il fiato sospeso, ma nel caso di Trump non si vedeva altro: ogni gesto era egoriferito, autoreferenziale. E si vedeva. Lo ha dimostrato il fatto che la mattina dopo il viaggio, leggendo i resoconti dei giornali, il presidente ha sentito il bisogno di twittare una parola di conforto al “grande popolo del Texas” e subito dopo di accusare i media che hanno scritto resoconti falsati della visita: “Dopo aver letto i falsi racconti e anche la feroce rabbia di alcuni giornali morenti, mi domando: perché? Tutto ciò che voglio è make America great again!”. Non c’era modo migliore per rendere palese lo scopo promozionale di una visita che perde immediatamente il suo significato dichiarato nel momento in cui gli spettatori vedono il trucco. Avrebbe avuto più fortuna a fare come Calvin Coolidge.
L'editoriale dell'elefantino