(foto LaPresse)

Il Kenya al voto con la paura di nuovi scontri

Daniele Lettig

In uno dei paesi africani più avanzati sfida tra il presidente uscente Uhuru Kenyatta e lo storico capo dell’opposizione Raila Odinga. Dopo una campagna segnata da episodi di violenza ora c'è timore per quello che succederà

Roma. Per molti keniani il nane nane – “otto/otto”, il giorno delle elezioni – è iniziato parecchio prima dell’alba, ora prevista per l’apertura dei seggi (le 5 del mattino in Italia). Già durante la notte, infatti, davanti alle quarantamila postazioni elettorali allestite nel paese africano hanno iniziato a formarsi file lunghe ma ordinate di cittadini in attesa di votare: sono oltre 19 milioni quelli iscritti alle liste, che dovranno scegliere i loro rappresentanti al Senato e alla Camera e i governatori delle otto province, ma soprattutto il nuovo presidente della Repubblica.

 

A contendersi la massima carica ci sono otto candidati, ma sono due quelli che si giocano la vittoria, in un remake del voto del 2013 e continuando una sfida familiare nata negli anni Sessanta: il presidente uscente – figlio del primo leader del Kenya indipendente – Uhuru Kenyatta, 55 anni, leader della Jubilee Alliance, e lo storico leader dell’opposizione, il settantaduenne Raila Odinga: figlio del primo vicepresidente keniano, partecipa per la quarta volta alle elezioni alla testa della National Super Alliance (Nasa). Secondo i sondaggi più recenti i due sarebbero molto vicini e ci sarebbe la concreta possibilità di dover ricorrere al ballottaggio, previsto se nessuno dei candidati raggiunge il 50 per cento dei suffragi e il 25 per cento in almeno 24 delle 47 contee del paese. I risultati dovrebbero essere resi noti mercoledì.

 

Il leader dell’opposizione – personaggio controverso, amato e odiato in eguale misura dai keniani – ha fatto promesse impegnative, proponendosi come il nuovo Giosuè che avrebbe portato il popolo verso la salvezza (l’hashtag più usato dalla sua campagna è stato #ReadyForCanaan): combattere la diffusissima corruzione, assicurare a tutti cibo e servizi sanitari, sradicare la povertà e ridurre il debito pubblico - che dal 2013 è raddoppiato fino ad arrivare al 53 per cento del Pil. Kenyatta, il cui mandato è stato caratterizzato da grandi scioperi e accuse di corruzione, cerca di farsi rieleggere “per portare a compimento il lavoro”, rivendicando i risultati raggiunti durante il suo mandato. Dal 2013 il paese è infatti cresciuto in media del 5 per cento all’anno, soprattutto grazie al settore tecnologico e alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, tra cui la ferrovia Mombasa-Nairobi costruita grazie a massicci investimenti cinesi. Opere i cui benefici però sono arrivati alla popolazione solo in minima parte, con una disoccupazione che resta molto alta specialmente tra i giovani. Perciò Kenyatta promette di creare 1,3 milioni di impieghi, oltre a rendere gratuite l’istruzione superiore e le cure sanitarie per gli anziani e aumentare la produzione agricola.

 

Nonostante l’apparente tranquillità, il Kenya è arrivato al voto in una situazione tesa, tanto che il governo ha dispiegato 180 mila soldati come misura precauzionale: negli scorsi mesi ci sono state infatti diverse proteste, che in alcuni casi hanno provocato dei morti. Il 31 luglio poi è stato trovato ucciso Chris Mando, il responsabile del sistema informatico con cui si svolge il voto – basato su dei tablet che riconoscono gli elettori dai loro dati biometrici e trasmettono direttamente i risultati a un server centrale attraverso la rete mobile 3G, la cui sicurezza è garantita da giganti dell’informatica come IBM o Dell. Sistema reso possibile dal fatto che il Kenya è uno dei paesi africani in cui la rete mobile e Internet sono più diffusi: e non a caso la campagna elettorale è stata caratterizzata, oltre che dalle violenze, da una massiccia diffusione di fake news attraverso i social network.

 

Il timore diffuso è che possano succedere degli scontri simili a quelli seguiti alle elezioni del 2007, che esplosero dopo la denuncia dell’opposizione - guidata anche allora da Odinga - di brogli a favore del presidente eletto Mwai Kibaki. Ci furono circa 1.100 morti e 600 mila sfollati, e il paese, uno dei più economicamente avanzati e politicamente stabili dell’Africa orientale, piombò in una gravissima crisi umanitaria. E se alle elezioni del 2013 la parola d’ordine dei candidati era stata quella della pacificazione, i toni di questa campagna sono stati molto più accesi: ancora pochi giorni fa, infatti, Odinga ha detto all’agenzia Reuters che l’unico modo di vincere le elezioni per il partito al governo “è quello di manipolare i risultati”.

 

In questi ultimi giorni, negli slums delle principali città molti keniani hanno fatto scorte di cibo (e in qualche caso di armi) preparandosi a restare chiusi in casa. Tantissimi altri sono invece ritornati a votare nelle aree rurali di cui sono originari per premunirsi contro eventuali scoppi di violenza. E ieri, mentre Kenyatta ha invitato gli elettori ad andare a votare “in grande numero” ma “in pace”, si è fatto sentire anche Barack Obama: l’ex presidente degli Stati Uniti, il cui padre era di origini keniane, ha incitato i leader del paese a “rifiutare la violenze, rispettare il volere del popolo e lavorare assieme a prescindere dal risultato”.

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