Kim Jong-un (foto LaPresse)

Perché un regime change in Corea del nord è difficile, ma non impossibile

Giulia Pompili

Dopo anni di tentativi, occhio ai millennial

Roma. L’ultimo test missilistico della Corea del nord, il secondo di un missile balistico intercontinentale (Icbm) in tre settimane, è il segnale che qualcosa nella nostra strategia di contenimento della minaccia nordcoreana non sta funzionando. E l’hanno capito tutti, ormai, perfino gli analisti che fino a un mese fa parlavano dell’ipotesi di Pyongyang armata con tecnologie offensive per l’America come di un futuro lontano, di cui ci si occuperà più in là. E invece no. Ci siamo, è qui e ora. Non solo il giovane leader Kim Jong-un ha i missili per colpire il territorio americano direttamente, ma possiede anche un largo numero di missili balistici a corto raggio capaci di eludere gli intercettori americani (ne parlavano lunedì Henry Sokolski e Zachary Keck sul Wall Street Journal, mettendo in guardia sul rischio di far diventare Pyongyang una specie di supermercato di armi per governi autoritari e gruppi terroristici). Se la strategia della “pazienza strategica” dell’ex presidente americano Barack Obama non ha portato a grandi risultati, quella dei colleghi sudcoreani, Lee Myung-bak e Park Geun-hye, è stata un susseguirsi di errori di valutazione grossolani e show di forza più provocatori che deterrenti. Per esempio, secondo i cable di WikiLeaks del 2010, sappiamo che gli ufficiali sudcoreani, subito prima della morte di Kim Jong-il, erano “assolutamente sicuri” che la dinastia dei Kim sarebbe caduta a breve a causa dei disordini interni, e convincevano i colleghi americani del fatto che il collasso sarebbe arrivato presto. Poi, però, è arrivato Kim Jong-un, la Corea del nord non è collassata, e il programma missilistico e nucleare ha subìto un’accelerazione straordinaria. Non solo: lunedì l’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, ha detto che dopo l’ultimo test missilistico non c’è bisogno di una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza, perché “se non produce conseguenze reali, allora non ha valore”. La Haley ce l’ha con le risoluzioni e le sanzioni economiche che hanno prodotto ben poco finora. Che fare, dunque?

 

Una settimana fa, all’Aspen security Forum, il direttore della Cia, Mike Pompeo, ha detto: “Sono sicuro che l’intelligence saprà preparare delle strategie per ‘separare’ il governo del leader nordcoreano dal programma nucleare”. E poi: “Sarebbe bellissimo denuclearizzare la penisola, liberarsi delle armi, ma la cosa più pericolosa in realtà è il temperamento di chi ha il controllo di quelle armi, oggi”. In pratica Pompeo parla di un regime change a Pyongyang, un’ipotesi che era stata scartata ad aprile dal segretario di stato Rex Tillerson, e che invece oggi torna come un’opzione possibile. Il fatto è che dal 2001 a oggi la cosiddetta “dottrina Bush” è stata oggetto di critiche, considerato come sono andate a finire le cose in Iraq, ma anche in Libia, in Siria, le primavere arabe. Inoltre, sono circa trent’anni che l’America tenta, in qualche modo, un regime change a Pyongyang, senza successo.

 

Il rovesciamento di un regime “ostile” può avvenire attraverso il coinvolgimento diretto, militare, delle Forze occidentali – e si dice che in questo caso Washington deve essere pronta a “sacrificare Seul”, perché la rappresaglia di Pyongyang non può che essere quella di far saltare una città da quasi dieci milioni di persone, la più vicina e a portata di missile. Si chiama “strategia di annientamento”, ed era stata provata nel 1950 in Corea, ma finì con il coinvolgimento di Russia e Cina e l’armistizio del 1953. Scrive Colin Dueck in “The Obama Doctrine” che quando il regime change diretto fallisce, lo fa in maniera “spettacolare”, come a Cuba nel 1961.

 

Ma un regime change può avvenire anche in maniera indiretta, con un uso combinato di azioni sotto copertura militari, e poi pressioni diplomatiche ed economiche volte al collasso del regime. Questa è la strada adottata finora con la Corea del nord. Eppure l’isolamento economico di Pyongyang continua a essere un mistero: le sanzioni non funzionano, e il regime continua a trovare i finanziamenti per missili e nucleare. Perfino la crescita economica c’è (+3,9 per cento nel 2016 rispetto all’anno precedente, il miglior risultato da 17 anni). Un regime change, poi, si conduce foraggiando i gruppi dissidenti interni, che però, in un sistema orwelliano come quello nordcoreano semplicemente non esistono. La gente ha paura di parlare, perché basta un sospetto per finire in un campo di lavoro. Alcuni gruppi di attivisti della Corea del sud ogni tanto inviano messaggi di propaganda attraverso palloncini a elio attraverso il 38° parallelo: inutili. Di nuovo, l’unico attore in grado di poter portare a casa un risultato è la Cina – e su questo Trump non sbaglia. Il confine tra la Corea del nord e la Cina è quello dove passano più informazioni. La Cina è l’unica potenza che non ha isolato, non solo economicamente, ma soprattutto diplomaticamente Pyongyang. Nel frattempo, quello attuale continua a essere il momento più propizio per l’eliminazione fisica di Kim Jong-un: non ha eredi sufficientemente cresciuti, e un eventuale sostituto farebbe parte del cerchio magico di fedelissimi, per lo più membri delle Forze armate, molto anziani, meno forti dal punto di vista della leadership perché non discendenti dalla dinastia. Kim lo sa, ed evita non solo di uscire dal paese, ma anche di presenziare a occasioni pubbliche se non controllatissime. Resta un unico fattore, probabilmente non ancora valutato sufficientemente dall’intelligence internazionale: i millennial. L’Ap ha pubblicato lunedì un lunghissimo reportage di Tim Sullivan sulla nuova generazione di nordcoreani. I giovani che non hanno vissuto l’economia rampante della Corea del nord degli anni Settanta, e che oggi sono molto meno interessati alla dottrina socialista. Vestono all’occidentale, “fanno finta di ascoltare i discorsi” del Caro Leader. La mitologia creata intorno alla dinastia dei Kim per loro non è più così fondamentale. Un regime change, più che dalle élite, potrebbe iniziare da loro.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.