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La linea difensiva è: prudenza. E Trump tratta il figlio da sprovveduto

Il caso che sta mandano in tilt la Casa Bianca è nato nella scena pop azera, mediato da un surreale circo di rapporti

New York. Si capisce che la famiglia Trump è in difficoltà quando Donald abbandona la regola aurea per affrontare le controversie che ha imparato molti anni fa dal suo maestro, Roy Cohn: attaccare, attaccare, attaccare. In privato il presidente è furibondo con i media per il ramo dello scandalo russo che ha travolto il primogenito Donald Jr., ma la linea difensiva presenta qualche inedita morbidezza. Donald Jr. è andato negli studi di Fox News a protestare la sua innocenza sull’incontro con quelli che credeva essere emissari del Cremlino, ma ha ammesso che “avrebbe dovuto comportarsi in modo leggermente diverso”. Il presidente lo ha difeso dicendo che è stato “aperto e trasparente”, parole estranee al vocabolario naturale di Trump che sono state suggerite dai consiglieri. C’è una guerra interna alla Casa Bianca sulla strategia difensiva, e la truppa degli avvocati presidenziali spinge verso la trasparenza: occorre mostrare le carte, come ha fatto Donald Jr. con le email, e trasmettere l’idea che il giovane Trump è uno sprovveduto e imprudente finito invischiato in un affare più grande di lui che non aveva i mezzi per comprendere, specialmente nel giugno del 2016, quando la collusione russa non era ancora il tormentone della politica globale. La denuncia della “più grande caccia alle streghe della politica americana” è sempre sulla bocca del presidente, ma è mitigata da altre voci che sussurrano prudenza. A complicare lo scenario ci si è messo ieri anche Christopher Wray, il direttore dell’Fbi nominato da Trump che sotto giuramento davanti alla commissione giudiziaria del Senato ha detto che l’inchiesta sulla collusione con la Russia “non è una caccia alle streghe” e, messo sotto pressione da Lindsey Graham, ha aggiunto che in un caso come quello di Donald Jr. è “saggio” riportare le tentate interferenze elettorali, vere o presunte che siano, all’Fbi. La questione, è bene ricordarlo, è tutta lì: il problema non è esclamare “I love it” alla prospettiva di ottenere fango sull’avversario, è che il fango arrivava da un governo straniero.

 

Il caso di Donald Jr. ha acuito una gigantesca faida interna alla West Wing sulla gestione del dossier russo. Bande di consiglieri si scambiano accuse per aver dato i suggerimenti sbagliati al presidente, e ora che le circostanze dell’incontro fra Donald Jr. e l’avvocatessa Natalia Veselnitskaya sono state accertate, molti nella cerchia presidenziale sono furibondi perché la notizia fa crollare mesi e mesi di smentite su incontri con personaggi affiliati al Cremlino. La strisciante guerra interna ha prodotto decine di virgolettati anonimi di funzionari della Casa Bianca che si accusano e scaricano addosso le responsabilità, seguendo l’usanza trumpiana – imparata alla scuola del reality – di lavare i panni sporchi in pubblico. Il vicepresidente, Mike Pence, ha dato la suprema lezione di pilatismo dichiarando che all’epoca dei fatti contestati lui non faceva parte del team di Trump. Il presidente ha involontariamente confermato lo stato di caos con un tweet non richiesto: “La Casa Bianca funziona perfettamente”.

Nella West Wing si affrontano a colpi di virgolettati anonimi bande di consiglieri che si scaricano le colpe. Senza che nessuno lo abbia chiesto, Trump twitta informazioni inverosimili come: "La Casa Bianca funziona perfettamente" e "non ho tempo per guardare la televisione"

Da quando Donald Jr. ha pubblicato il suo lungo scambio di email con Rob Goldstone, l’improbabile mediatore dell’incontro, l’espressione “smoking gun” è riaffiorata su tutti i giornali dopo un periodo in cui le tanto agognate prove della collusione non sembravano arrivare mai, e figurarsi le scuole fumanti. Una scuola di pensiero, rappresentata idealmente da Bob Woodward e David Brooks, non certo due alleati di Trump, si è messa pure a dire che l’affare stava diventando “un’inchiesta su un’inchiesta”, un grande circo mediatico sostenuto da massicce dosi di wishful thinking più che da un solido impianto di prove. Il grande inciampo di Donald Jr. ha cambiato lo scenario, perché dalle chiacchiere e dai sospetti si passa alle carte, agli incontri programmati e certificati con presunti emissari del Cremlino. Non si sa se quello che in fondo è un colossale caso di omissione – avrebbe dovuto portare tutto all’Fbi immediatamente e non l’ha fatto, questo è il peccato mortale, l’incontro in sé si è rivelato un “nothingburger”, come dicono gli americani – abbia la dignità della pistola fumante, ma di sicuro rappresenta un salto di qualità nel grande romanzo accusatorio ambientato fra Washington e Mosca. Nell’universo alternativo dei sostenitori del presidente non c’è fatto che possa cambiare le opinioni, ma nell’ufficio di Robert Mueller, il procuratore speciale che indaga sulla collusione con il Cremlino, vigono altre regole. Finora Trump è riuscito ad allontanare molte delle accuse con una serie di riparazioni e manovre correttive. Ha licenziato Michael Flynn quando la sua posizione s’è fatta insostenibile, e lo stesso aveva fatto con Paul Manafort durante la campagna elettorale. Jared Kushner ha più volte aggiornato l’elenco dei rappresentanti stranieri che ha incontrato nella sua capacità di consigliere, e altri della cerchia hanno preso contromisure per ripulirsi agli occhi degli inquisitori. Donald Jr. è la variabile impazzita di questa equazione, e una variabile che il presidente non può licenziare o allontanare. Don è il lato oscuro del familismo amorale che domina il mondo di Trump e che fin qui aveva prodotto innanzitutto Ivanka, ovvero il volto liberal e presentabile dell’Amministrazione.

 

Il caso in cui è rimasto invischiato il figlio è legalmente preoccupante ed esteticamente terribile (i due ambiti vanno spesso a braccetto in casa Trump). L’incontro con l’avvocatessa russa emerge da un bestiario di amicizie dubbie che fanno perno su Emin Agalarov, cantautore dell’Azerbaigian e cresciuto nel New Jersey che Don ha conosciuto a un concorso di bellezza in Russia, nell’ambito degli affari dei genitori nel mondo dello spettacolo. Che scattasse subito una solida amicizia era inevitabile. Il padre, Aras, è un grande immobiliarista che gode della protezione del Cremlino, ed Emin è stato sposato con la Leyla Aliyeva, figlia del presidente azero. Insomma, l’incontro da cui potrebbe dipendere il futuro della geopolitica globale è nato nella scena pop dell’Azerbaigian con entrature al Cremlino, è stato mediato da un losco pierre inglese che sembra il Mino Raiola della famiglia Trump ed è stato portato a termine da un’avvocatessa che, sostiene, voleva parlare soltanto del Magnitsky Act, altro che elezioni, ma è legata a doppio filo alle strutture del governo russo.

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