Elizabeth Warren (foto LaPresse)

La censura di Warren e le tendenze autolesioniste del Gop

La destra fa della senatrice un’eroina del free speech. Le conseguenze involontarie del metodo Trump

New York. Hanno iniziato a stampare sulle magliette la frase “nevertheless, she persisted” pochi minuti dopo che era stata pronunciata in un Senato semideserto. E’ stato il leader dell’Aula, il repubblicano Mitch McConnell, a dirla per mettere a tacere la senatrice Elizabeth Warren, eroina dell’ultrasinistra che si stava esercitando nell’ennesimo atto d’opposizione a Jeff Sessions, procuratore generale nominato da Donald Trump e non ancora confermato. Pare che Warren nel suo appassionato dissenso abbia violato un’antica regola di condotta del Senato, e l’avversario ne abbia approfittato per zittirla: “La senatrice Warren ha fatto un lungo discorso. Ha violato la regola. E’ stata avvertita. Le è stata data una spiegazione. Nondimeno, ha persistito”. I senatori presenti nella tarda serata hanno votato a favore dell’interruzione dell’arringa. Così hanno tolto la parola a Warren, trasformandola istantaneamente da fiera oppositrice politica in martire della libertà di parola, con un profluvio di tweet e l’hashtag #LetLizSpeak subito diventato trending.

 

La regola invocata da McConnell è la numero 19, un relitto protocollare che impedisce a un senatore di “attribuire a un altro senatore, direttamente o indirettamente, qualunque condotta o intenzione che siano indegne della sua elezione al Senato”. E’ una forma di protezione della dignità dei rappresentanti del popolo che risale ai tempi in cui l’insulto facilmente si trasformava in rissa e talvolta la rissa diventava uno scontro a fuoco. Si può discutere dell’anacronismo e dell’opportunità di applicare antiche regole in modo selettivo (diversi senatori hanno fatto notare che secondo questo standard ogni giorno qualcuno dovrebbe essere zittito), ma non è il punto.

 

Il punto è che per dimostrare l’inadeguatezza di Sessions, la Warren stava leggendo una lettera che Coretta Scott King, la vedova di Martin Luther King, ha scritto nel 1986, quando l’allora procuratore dell’Alabama Sessions era stato nominato giudice federale. King scriveva: “Sessions ha usato i suoi incredibili poteri nell’ignobile tentativo di intimidire e terrorizzare gli anziani elettori neri. A causa di questa condotta reprensibile, non deve essere ricompensato con un ruolo in un tribunale federale”. In sintesi: King accusava Sessions di essere razzista e Warren, facendo suo l’argomento, è incappata nella violazione di una regola che impedisce a un senatore di tacciare di razzismo un collega. Un inghippo che si è brillantemente risolto a favore di Warren e dei democratici, perché una cosa sono i codicilli ottocenteschi, un’altra è la percezione dell’accaduto, ovvero una censura di Coretta King e di tutto ciò che rappresenta da parte di un Senato americano segnato dall’ostilità razziale. Warren ha promesso che “Coretta King non sarà messa sotto silenzio nel Senato”, fuori dall’Aula ha ripreso il suo discorso in streaming e così è stata immediatamente elevata nel cielo dei grandi eroi dei diritti civili. La sua immagine ha preso a circolare accanto a quella di Rosa Parks e Harriet Tubman, i leader delle associazioni per i diritti civili le si sono subito stretti attorno, ieri i colleghi democratici hanno sfidato la regola 19 e sul “floor” hanno letto la lettera lasciata a metà da Warren.

 

I democratici hanno avuto il momento “bivacco di manipoli” che aspettavano, la circostanza perfetta per smascherare una maggioranza parlamentare zotica e arrogante che vuole, a quanto dicono, un suprematista del sud come procuratore generale e ha usato il vicepresidente per decidere della conferma della contestatissima Betsy DeVos come segretaria dell’Istruzione. Quella andata in scena lunedì sera al Senato è anche una sintesi del modus operandi autolesionista di un Partito repubblicano che dopo otto anni di opposizione si sta misurando con il potere. I teorici della comunicazione chiamano “effetto Streisand” quello che McConnell ha generato involontariamente, usando in modo strumentale – benché corretto – un cavillo recuperato da qualche cassetto polveroso e impiegato in modo evidentemente capzioso. E’ il caso in cui un tentativo di nascondere o tacere qualcosa fa più rumore e attira più attenzioni della cosa che si voleva mettere a tacere, come quella volta in cui Barbra Streisand ha cercato di togliere dalla circolazione le foto della sua colossale villa di Malibu. Le immagini erano a malapena state notate dal pubblico, mentre il tentativo di insabbiarle ha fatto accendere tutti i riflettori sulla star di Hollywood.