Theresa May (foto LaPresse)

Londra contro l'antisemitismo

Redazione

Il premier May definisce una politica per contenere gli episodi antiebraici

La battaglia di Theresa May contro l’antisemitismo è iniziata ufficialmente ieri, anche se è da tempo che il premier britannico pensa a una policy da applicare per contenere la crescita di episodi di antisemitismo nel Regno Unito: undici per cento in più nei primi sei mesi dell’anno, rispetto al 2015. Il risvolto politico è chiaro: il Labour, partito di opposizione guidato da Jeremy Corbyn, è da mesi impantanato in una querelle interna sull’antisemitismo, partita a maggio con l’ex sindaco di Londra Ken Livingstone e le sue dichiarazioni su Hitler che non era antisemita e continuata poi con sospensioni, inchieste interne viziate da conflitti di interesse e comunque inconcludenti, altre sospensioni e una sostanziale mancanza di volontà da parte di Corbyn di risolvere davvero la questione.

 

 

Con la sua policy sull’antisemitismo, la May colloca il suo partito, i Tory, in netto contrasto, culturale, ideologico e politico, con il Labour. Ma oltre alla dimensione politica, su cui la May è la regina del tatticismo, c’è di più. Il premier recupera la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance, che riunisce 31 paesi compresa l’Inghilterra, e dice che chiunque sia colpevole di antisemitismo “nella sostanza, nel linguaggio, nel comportamento” sarà considerato responsabile. L’antisemitismo, secondo questa definizione, riguarda “una certa percezione degli ebrei, che si può esprimere come un odio contro gli ebrei”, non ha a che fare soltanto con chi abita o è legato a Israele, è molto di più, e riguarda una definizione che tolga ogni attenuante rispetto a crimini di odio e di razzismo. Il Labour per ora ha accolto la decisione con toni concilianti.

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