La siccità colpisce anche gli alligatori in Paraguay (foto LaPresse)

Malaria, carestie, guerre civili e terrorismo: è tutta colpa della siccità

Luciano Capone
Quando il global warming assolve i dittatori.

Roma. “In Sicilia c’è una piaga grave, che nessuno riesce a risolvere… è la siccità”, diceva lo zio mafioso di Johnny Stecchino nel celebre film di Roberto Benigni. E diceva bene, visto che ora pare essere la causa di tutti i problemi del mondo. Ad esempio in Venezuela è esplosa la malaria, una malattia che tra il 1960 e il 1980 sembrava completamente sradicata, anche grazie al lavoro di Arnoldo Gabaldón, medico e ministro della Sanità che aveva fatto del Venezuela un modello internazionale nella lotta al morbo. E invece nei primi mesi dell’anno, i casi di malaria sono cresciuti del 72 per cento per un totale di 125 mila contagi, scrive il New York Times. “Cambiamenti climatici e crisi: in Venezuela torna la malaria”, ha titolato in Italia la Stampa. Quindi, oltre alla precaria situazione economica, sarebbe il riscaldamento globale la causa che ha fatto esplodere l’epidemia. Ma si tratta di un cambiamento climatico strano, perché produce questi effetti solo a Caracas. Se si sfoglia il World malaria report 2015, il resoconto annuale sulla malattia dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si scopre che il Venezuela è l’unico paese al mondo in cui dal 2000 al 2015 è aumentata l’incidenza della malattia, mentre dalle altre parti è in forte riduzione. Il dato è ancora più sorprendente se si considera che nelle Americhe i casi di malaria sono scesi da 1,2 milioni a 390 mila, in 15 paesi su 21 l’incidenza della malattia si è ridotta più del 75 per cento e in diversi stati è sparita. Solo il Venezuela, che conta circa 1 caso di malaria su quattro del continente, ha registrato un aumento costante, oltre 90 mila casi nel 2014, il numero più grande in 50 anni: “Complessivamente, l’incidenza di casi confermati microscopicamente in questo paese è aumentata del 41 per cento tra il 2000 e il 2014”, scrive l’Oms. E guarda caso l’arco temporale considerato, più che con un climate change, coincide con un political change: è esattamente il quindicennio della Rivoluzione bolivariana inaugurata nel 1999 dal caudillo Hugo Chávez.

 

La diffusione della malaria è dovuta negli ultimi anni al profondo deterioramento delle condizioni del paese, causato dalla dissennata gestione socialista dell’economia (a cui si aggiungono la soppressione delle libertà democratiche e gli arresti dei dissidenti, proprio ieri il presidente Maduro ha minacciato l’opposizione di una reazione che farà sembrare Erdogan “un principiante”). La drammatica crisi economica ha spinto i venezuelani a cercare l’oro nelle zone minerarie paludose – se trova una pepita un cacciatore d’oro guadagna in un giorno ciò che una persona normale guadagna in un mese – ma proprio le paludi sono l’habitat ideale delle zanzare che diffondono la malaria.

 

E quello del Venezuela non è certo il primo caso in cui si attribuiscono al climate change i disastri politici ed economici di governi, dittatori e organizzazioni terroristiche. Anche la pesante carestia in Zimbabwe si dice sia colpa della siccità, ma più del ciclone El Niño ha fatto il compagno Bob Mugabe, il dittatore novantenne che con la sua “riforma agraria” ha trasformato il “granaio dell’Africa” in un paese che soffre una carestia ogni due anni. Allo stesso modo il segretario di Stato americano John Kerry aveva dichiarato che la radice della guerra civile in Siria è stata la siccità causata dal global warming, che però non ha prodotto gli stessi effetti nel vicino Israele, come se la repressione di Assad e l’insurrezione islamista non contassero nulla. Barack Obama ha usato il termostato globale e il determinismo climatico per spiegare l’ascesa del terrorismo islamico, dall’Isis in Siria a Boko Haram in Nigeria. Prima di lui, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha affermato che “il conflitto del Darfur è iniziato come una crisi ecologica, derivante  dal cambiamento climatico”. “Ma è la natura e non ci possiamo fare niente!”, avrebbe commentato lo zio di Johnny Stecchino.

 

Avanti di questo passo il sogno nel cassetto della prossima miss Italia non sarà più la pace nel mondo, ma la fine della siccità.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali