Aleksandar Vucic, primo ministro e presidente del Partito Progressista della Serbia (foto LaPresse)

Tutti vogliono uscire dall'Ue. I serbi vogliono entrarci. Ecco perché

Matteo Tacconi
L’Europa si tormenta e a Belgrado vincono gli europeisti. Ma bando al romanticismo, il premier Vucic è molto realista

Roma. I paesi europei vogliono uscire dall’Unione europea mentre la Serbia vuole entrarci. E’ quasi sorprendente scoprire, in tempi in cui si parla soltanto di exit dai mille colori e dalle mille motivazioni, che la capacità di attrazione dell’Europa – il celebre soft power basato su pace e prosperità, nelle intenzioni dei fondatori – esiste ancora. Aleksandar Vucic ha vinto le elezioni domenica e con lui si conferma la volontà della Serbia di proiettarsi verso il continente europeo. Ma non si pensi che l’idealismo – i valori, le libertà, il sogno europeo – abbia qualcosa a che fare con questo voto. Vucic è un realista e in modo molto pragmatico non vuole buttare via l’occasione europea. E’ una scelta della ragione, insomma, non del cuore.

 

Per capire che cosa è successo in Serbia bisogna fare un passo indietro. Per lungo tempo ogni elezione è stata un testa a testa tra il Partito democratico (Ds) e quello radicale (Srs). Il primo è stato fondato da Zoran Djindjic, protagonista della resistenza a Milosevic. Divenne primo ministro dopo la caduta del regime e credeva nell’inevitabilità dell’integrazione europea. Fu assassinato nel 2003. Il Partito radicale è invece una forza ultranazionalista guidata da Vojislav Seselj, l’ex paramilitare processato – e recentamente scagionato – all’Aia dal Tribunale dell’Onu per l’ex Jugoslavia. La Serbia democratica e quella nera, livorosa. Il duello è sempre stato chiaro. In mezzo, qualche partitino a fare da ago della bilancia. I radicali non hanno mai preso il potere. C’è sempre stata una conventio ad excludendum che ha sbarrato loro la strada.

 

Aleksandar Vucic si è formato nel Partito radicale, ma ha dovuto rompere con il suo passato per diventare primo ministro. Nel 2012 ha assecondato la svolta operata nel 2012 da Tomislav Nikolic, ex membro del Partito radicale che ha fondato il Partito del progresso (Sns): una forza conservatrice con ambizione maggioritaria, decontaminata dall’ultranazionalismo e pronta a contendere la bandiera europea ai democratici. Una rivoluzione, sul mercato politico di Belgrado. Ha funzionato. Nikolic ha vinto le presidenziali del 2012. Qualche mese dopo l’Sns si è affermato alle politiche e Vucic è stato nominato vice primo ministro in una coalizione con i socialisti, gli eredi ripuliti di Milosevic. Una carica che gli andava stretta, però. Vucic è ambizioso, deciso, motivato. Accarezza il sogno egemonico di mettersi al centro del sistema politico, ridurre a poca cosa alleati e i rivali, passando alla storia come colui che timbrerà l’adesione all’Ue: l’unica strada percorribile per liberare Belgrado dalla zavorra ingombrante degli anni ’90 e sconfiggere la sindrome del vittimismo.  Le mosse intraprese da Vucic a partire dal 2012 sono state tutte funzionali a quest’obiettivo. Nel 2014 ha forzato il voto anticipato. Voleva fare il premier, assicurarsi una maggioranza granitica, ridurre il peso dei socialisti nella coalizione e distruggere i democratici, in crisi di identità. Risultato centrato grazie al 48,5 per cento delle preferenze: maggioranza assoluta in Parlamento.

 


Il Parlamento serbo


 

Adesso Vucic ha preteso un altro voto anticipato, a soli due anni di distanza da quella scorpacciata. Stavolta l’obiettivo era una resa dei conti con l’ala dell’Sns che più sente le sirene della Russia e che pretende di non correre troppo rapidamente sulla strada per l’Europa, con cui si sono aperti nel 2014 i negoziati di adesione. Vucic ha pensato che questa battaglia andasse combattuta adesso, con un tasso di consenso ancora altissimo. Il 48,26 per cento incassato domenica non deve però ingannare. Vucic governerà con più difficoltà rispetto alla precedente legislatura. Essendo sette le formazioni che hanno superato lo sbarramento del 5 per cento (nella precedente legislatura vi riuscirono solo in quattro), l’Sns non ha fatto incetta di seggi non assegnati. Ha ancora la maggioranza assoluta, ma i partner socialisti si confermano seconda forza del paese e faranno valere questo risultato. E anche ammettendo che la corrente filo russa dell’Sns sia stata sconfitta, nel nuovo Parlamento emerge un blocco pro Mosca che può alzare la voce, fatto dai redivivi radicali di Seselj e da una coalizione nazionalista guidata dall’ex ambasciatrice in Italia, Sanda Raskovic-Ivic.

 

Secondo qualche analista, la presenza di un numero maggiore di partiti rende il Parlamento più democratico e capace di controllare in modo migliore l’operato del governo. Realisticamente si può ipotizzare che Vucic continuerà la politica di questi anni: un impulso alle riforme, per creare un ambiente più competitivo, lotta alle oligarchie e alla corruzione. Porterà avanti il processo di normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, mediato da Bruxelles. Si prodigherà per accreditare la Serbia come forza indispensabile nel processo di cooperazione regionale nei Balcani. E anche questo, come tutti gli altri, è un passaggio suggerito, se non preteso, dall’Ue. Vucic sa bene però che occorre cautela. Lo spostamento dell’asse verso l’Europa va fatto senza danneggiare il rapporto storico con la Russia (Belgrado ha rifiutato di adeguarsi alle sanzioni europee nei confronti di Mosca) ed evitando di passare come colui che ha svenduto il Kosovo. Ma nonostante questo, l’obiettivo resterà l’ancoraggio in Europa. C’è da chiedersi, se mai, se Vucic sia davvero un convinto europeista. Per la Serbia l’Europa è prima di tutto una scelta realista. L’intera regione balcanica si è mossa verso l’Europa. Slovenia e Croazia ne sono membri. Resistere a questo processo è sconveniente, può portare all’isolamento. L’Europa è anche una fonte di denaro importante, grazie ai fondi pre adesione. Senza contare gli investimenti diretti dall’estero – e l’Italia qui gioca un ruolo cruciale – che il processo di convergenza economico e legale con l’Europa stimola.

 

Vucic esegue i compiti che l’Ue gli assegna e si fa garante della stabilità a Belgrado per avere in cambio anche un po’ di campo libero in casa. In questi anni di governo, gli si rimprovera di aver imbavagliato i media e di aver condotto una lotta alla corruzione di facciata. E’ un copione seguito anche da altri politici balcanici, come il montenegrino Milo Djukanovic o il macedone Nikola Gruevski. Da un lato, si sono accreditati come riformisti e stabilizzatori; dall’altro, ed è teoria diffusa tra chi osserva le cose dei Balcani, hanno edificato un sistema di potere cesarista e opaco.

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