Ha ragione la Germania

Redazione
Lo spauracchio tedesco è l'alibi per non modernizzare i paesi. Un saggio spiega come gli Schäuble possono diventare complici della nuova Europa

Pubblichiamo un estratto del libro di Francesco Cancellato “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione”, edito da Università Bocconi Editore

 

“A che punto siamo con l’Europa?”. E’ con questa domanda che inizia un lungo articolo che Wolfgang Schäuble affida alle colonne del Guardian, quotidiano progressista britannico, dal titolo “Noi tedeschi non vogliamo un’Europa tedesca”. E’ il 19 luglio del 2013. Già allora, Schäuble, ministro delle finanze tedesco dal 2009, era da tempo riconosciuto come il cattivo, il guardiano supremo del rigore e dell’austerità, la nemesi di ogni persona che ritenga che ogni Paese europeo debba decidere per se stesso il proprio destino. Hanno ragione, questi ultimi, a temere Schäuble. Perché non c’è nessuno che vuole gli Stati Uniti d’Europa come li vuole lui. E nessuno che sta lavorando per far sì che diventino realtà, quanto ci sta lavorando lui. Wolf, è il suo nomignolo. Lupo. Per la provenienza da Friburgo ai margini della Foresta Nera, dove è nato nel 1942, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Per il carattere brusco e scostante. Ma anche – perlomeno, ci piace pensarlo – perché è lui quello che fa il lavoro sporco e che, come l’omonimo personaggio del film Pulp Fiction di Quentin Tarantino, risolve i problemi.

 

Lo ha fatto guidando i negoziati per la riunificazione tra Est e Ovest, quando era ministro degli Interni per il governo Kohl. E, più di recente, lo ha fatto durante la fase più acuta della crisi greca, minacciando l’ipotesi di una temporanea uscita della Grecia dall’Eurozona per disinnescare sul nascere la proposta di chi come la Francia, gli Stati Uniti d’America e il Fondo Monetario Internazionale premeva affinché fosse condonato parte del debito greco. Una forzatura necessaria, questa, per evitare un precedente pericoloso, che sarebbe stato messo sul tavolo ogniqualvolta uno Stato europeo si fosse trovato a chiedere un aiuto finanziario alle Istituzioni un tempo chiamate Troika. E, soprattutto, per evitare che sui banchi del Bundestag i deputati tedeschi si trovassero a dover ratificare una decisione indigesta che avrebbe messo a rischio la sopravvivenza del governo di Angela Merkel. E della sua road map verso l’Europa politica.

 

Nell’articolo Schäuble enumera i successi del suo sforzo rigorista portato avanti in tutti i Paesi europei, in particolare quelli del Sud: “I mercati del lavoro e i sistemi di protezione sociale sono stati riformati; la pubblica amministrazione, le strutture legali e i regimi fiscali sono stati modernizzati.Questo sforzi stanno dando i loro frutti. C’è più competitività. Gli squilibri economici si stanno restringendo. La fiducia degli investitori sta tornando”. In altre parole, aggiunge, stiamo ricucendo il legame tra opportunità e rischi”. Fin qui, tutto secondo copione. Schäuble, non si sottrae nemmeno a rimarcare anche ciò che non va, però: “C’è grande incertezza tra la popolazione dei nostri Paesi. La gente sta perdendo il lavoro perché i propri Paesi stanno sperimentando una profonda fase di transizione economica. E troppo spesso il discorso pubblico sulla crisi è dominato da reciproche recriminazioni e commenti populisti. Il cliché nazionali e i pregiudizi, che eravamo convinti di aver sconfitto, stanno rialzando la testa”.

 

Il bello di questo discorso è che Schäuble, forse galvanizzato per aver appena ricevuto il premio intitolato a Carlo Magno, scende parecchio nei dettagli. Ad esempio, dice di non volere “un super–Stato europeo», che “buona parte delle responsabilità dovranno essere decentralizzate al livello locale” e che “le istituzioni europee dovranno essere responsabili di prendere le decisioni che si possono prendere a livello continentale, e che dovranno essere democraticamente legittimati per farlo”. Tra le righe del suo discorso, oltre allo stratega, emerge il tattico, consapevole che il “percorso non sarà per nulla agevole” e che “pragmatismo e flessibilità saranno sempre opzioni migliori del fissarsi ostinatamente sui propri principi”. Così è stato, ad esempio, quando si è trattato di dire di sì al Quantitative Easing – un massiccio programma di acquisto dei titoli di stato europei da parte della Banca Centrale Europea – contro cui la Germania si era sempre opposta. “È meglio una lenta evoluzione di una rivoluzione”, motiva Schäuble, ma nemmeno troppo: “Dobbiamo far sì che il Presidente della Commissione Europea sia eletto direttamente, abolire il diritto degli stati nazione di nominare i commissari, far sì che la Commissione diventi un vero e proprio Governo europeo, creare un sistema bicamerale che comprende un Parlamento eletto a suffragio universale e una Camera degli Stati Membri in cui i posti siano distribuiti in funzione del peso dei diversi Stati. Fatemelo dire ancora: il mondo non ci aspetterà ancora per molto, ed è questo il motivo per cui dobbiamo accelerare”. 

 

Piaccia o meno, questo è il percorso. Un percorso che è iniziato tra l’1 e il 2 marzo del 2012, a Bruxelles, quando ci siamo impegnati, insieme a tutti gli stati membri dell’Unione Europea a esclusione della Gran Bretagna e della Repubblica Ceca, a far scendere il debito pubblico, nel giro di vent’anni, sino al 60% del Pil. Per la cronaca, oggi il debito pubblico italiano viaggia attorno al 133%.  Questo impegno si chiama fiscal compact ed è quello di cui parla Schäuble non è che la copia carbone delle modifiche costituzionali introdotte in Germania nel 2009, in materia di rapporti finanziari tra la Federazione e i lander. All’interno dei confini tedeschi è una norma che ha due facce: i lander devono ridurre il debito e per farlo devono tagliare tutto quel che possono. Però dall’altra parte c’è una politica fiscale comune e uno Stato che emette bund, i cui proventi tornano ai territori in risorse e servizi, redistribuiti dai lander più ricchi a quelli più poveri. Funziona, insomma: i lander sprecano meno e lo Stato centrale può giovarsene riuscendo a raccogliere denaro a un costo molto basso. Per quanto Schäuble dica che non vuole “un’Europa tedesca”, la verità è che è stata la stessa Germania a spingere affinché questa sua normativa venisse adottata, pari pari, anche a livello europeo. Scelta che ha generato obiezioni più che legittime: la Germania fa il fiscal compact perché ha una politica fiscale comune, un fondo di perequazione che distribuisce risorse da quelli più ricchi a quelli più poveri, una banca centrale che emette debito pubblico.

 

(…) C’è una storiella che racconta che Angela Merkel, durante le lezioni di nuoto, saltasse dal trampolino solo dopo la campanella, alla fine della lezione. Ed è in effetti questo il principale rischio che la Germania e il suo sogno europeo corrono oggi. Quello di prendere l’iniziativa quando ormai è troppo tardi. “Oggi, della Germania, non temo la potenza, ma l’incapacità”, ha detto l’ex ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski, in un discorso del dicembre 2011, pronunciato a poche centinaia di metri dalla porta di Brandeburgo. Difficile dargli torto, in effetti: la Germania ha tutto per portare a termine il disegno di unificazione politica europea che ha in testa. Gli ostacoli politici sono relativi: i tedeschi sono oggi alla guida di buona parte delle istituzioni europee e la stragrande maggioranza dei Paesi europei – non solo quelli del cosiddetto “giardino di casa” a est e a nord dei suoi confini – sono da anni suoi fedeli alleati. Non solo: allo stato attuale non esiste alcuna idea di Europa alternativa a quella da loro portata avanti, se non quella di chi vorrebbe veder implodere l’Unione o, ancor più semplicemente, vorrebbe uscirne. Peraltro, persino chi dice di voler abbandonare l’Europa poi non lo fa: la vicenda greca, con il fronte del No all’accordo con i creditori che vince il referendum e poi, messa di fronte alla prospettiva della grexit accetta un memorandum ancor più restrittivo di quello respinto dal voto, è esemplificativa del bluff degli euroscettici e dei nazionalisti, più timorosi del salto nel vuoto, di quanto siano acerrimi nemici dello status quo.

 

Ed è proprio lo status quo, peraltro, questo stato di eterna e immobile transizione il vero problema dell’Europa di oggi, la causa dello scetticismo – se non dell’aperta ostilità – che la circonda e che sta montando pressoché ovunque nel continente. La moneta senza stato. La tecnocrazia che decide senza essere legittimata dal voto. Le normative comunitarie finalizzate ad assicurare la massima concorrenza all’interno dell’Unione, ma che non si preoccupano della nostra competitività all’esterno di essa. Così, quella che dovrebbe essere “l’assicurazione sulla vita dell’Europa nella globalizzazione”, per dirla con le parole del ministro degli esteri tedesco Frank–Walter Steinmeier rischia di diventare il suo esatto opposto. Il problema della Germania è che quel troppo tardi rischia di arrivare molto presto. E che ciò che lo avvicina sempre più è la somma di due fattori potenzialmente letali: del primo, l’emergere di un diffuso fronte anti–tedesco e anti–europeo nel resto dell’Europa, ne abbiamo già parlato. Ciò che potrebbe irrimediabilmente aggravarlo è il secondo fattore critico: l’indebolimento politico ed economico che minaccia di colpire la Germania nei prossimi anni. (…) Il terzo elemento di crisi tedesca è invece il più sottile, ma anche il il più pericoloso di tutti, a livello politico. Fino ad oggi, infatti, i tedeschi erano riusciti a mantenere la loro egemonia politica sul Vecchio Continente anche perché le loro riserve finanziarie erano indispensabili per salvare i Paesi del sud Europa come Grecia, Spagna e Portogallo.

 

Al di là di ogni altra concausa si può dire senza timore di smentite che buona parte dell’influenza politica tedesca sul resto dell’Europa dipenda da questo. Del resto, dal Meccanismo Europeo di Stabilità all’Unione Bancaria Europea, sino al Quantitative Easing della Bce non c’è stata istituzione o strategia che non sia partita nel momento stesso in cui la Germania ha concesso il suo assenso. Ogni crisi è stata un’opportunità, per la Germania. Ma in assenza di crisi, in altre parole, Berlino cessa di essere un soggetto cui chiedere aiuto. Cosa che rischia di far perdere ai tedeschi buona parte del proprio potere d’indirizzo sulle politiche da adottare in Europa di qui in avanti: “Con i tumulti finanziari che si stanno in gran parte placando – ha osservato l’economista Daniel Gros in un articolo dal titolo “La fine dell’egemonia tedesca” – la Germania non dispone di nuove opportunità per dimostrare il suo prestigio politico, sia fuori che all’interno dell’Eurozona”.

 

Non è solo l’economia a congiurare contro Berlino: “Mentre la Germania, a causa del suo pieno coinvolgimento nelle economie dell’Europa centrale e dell’est, è stata determinante negli accordi di Minsk che dovevano porre fine al conflitto in Ucraina – continua Gros – essa ha poca influenza tra i paesi del Medio Oriente che stanno attirando l’attenzione del mondo oggi. Mentre molti hanno messo in evidenza la leadership politica della Germania nella crisi dei rifugiati, la realtà è che essere in prima linea in quella crisi, senza avere molta influenza sui fattori che l’hanno provocata, sta creando notevoli tensioni sul paese. La Germania è ora, per la prima volta, nella posizione di dover chiedere ai suoi partner europei solidarietà, poiché non riesce ad assorbire tutti i nuovi arrivati da sola”.  Il sangue attira gli squali. E il primo ad accorgersi del mutato scenario geopolitico europeo è il premier italiano Matteo Renzi: “Non potete raccontarci che state donando il sangue all’Europa, cara Angela”, apostrofa la Merkel durante il Consiglio Europeo del 19 dicembre 2015. È già suonata la campanella? Non lo sappiamo. Quel che è certo è che di tempo, da ora in poi, ce n’è davvero poco. E che più passa, più quell’ultimo passo verso la costruzione politica dell’Europa sarà difficile da compiere.