Hassan Rohani (LaPresse)

In Iran più che i riformisti ha vinto Rohani

Tatiana Boutourline

Teheran non è affatto “libera” e la vittoria dei riformisti alle elezioni di venerdì è solo un’illusione ottica. La dinamica da tenere d’occhio è quella tra pragmatici e oltranzisti.

Mentre a Teheran avanza il conteggio dei voti, le moto della polizia sciamano nelle strade in attesa di possibili festeggiamenti elettorali anche se Mohammed Reza Aref, il timido leader riformista uscito dal cappello del regime a beneficio di una nuova generazione di iraniani, assicura che nulla è stato organizzato. I dati assegnano 153 seggi parlamentari ai conservatori e 111 alla coalizione della “speranza” moderati-riformisti. Formalmente la vittoria dovrebbe essere celebrata da tutti – i conservatori che si salvano la faccia garantendosi una maggioranza risicata in Parlamento e una più consistente nel Consiglio degli Esperti, e i cosiddetti moderati che espugnano Teheran (tutti e 30 i seggi con Aref in testa e Ali Motahhari, l'altro peso massimo della coalizione, in seconda posizione) e guadagnano una solida minoranza in entrambe le assemblee – la sostanza però è che Hassan Rohani ha vinto tutto quello che poteva vincere e il suo trionfo dice molte cose sull'Iran e sulla sua rivoluzione.

 

Il primo dato è che quando agli iraniani viene data la possibilità di votare tra il poliziotto buono e quello cattivo, la maggioranza, si tura il naso e sceglie il male minore, ossia Rohani. Dopo i brogli e la violenza feroce del 2009 per molti la tentazione è stata quella di accettare la natura autocratica del regime e pensare che la ricetta più sana per sopravvivere fosse l'indifferenza, ma il deal nucleare ha rinfocolato la speranza in nuova normalità. “L'idealismo riguardo a una primavera persiana è evaporato”, dice l'analista Saeed Barzin. Gli iraniani sanno che le elezioni non sono libere ma partecipano sottoscrivendo un contratto sociale in base al quale “lo stato si impegna a promuovere lo sviluppo economico ed a garantire la sicurezza (il ministro dell'Intelligence ha annunciato ieri che le forze di sicurezza iraniane hanno sventato due attacchi kamikaze in Balucistan ed in Kurdistan alla vigilia del voto) e ti consente di scegliere tra programmi politici in cui le differenze esistono ma sono limitate”.

 

Le aspettative sono contenute, i cambiamenti cosmetici, ben lontani da quel gradualismo riformista promesso vent'anni fa dagli ideologi riformisti. Osservati speciali nel Truman Show del regime, gli iraniani, anche se festeggiano per strada i candidati selezionati dal regime, sfruttano le occasioni che offre il sistema per rendere la vita meno amara. L'atmosfera, ha spiegato a Foreign Policy un consulente finanziario chiamato Kaveh, è un po' quella malinconica descritta da Boris Pasternak alla fine del Dottor Zivago. “Parliamo di speranza perché non possiamo farne a meno”, ma nessuno ci crede fino in fondo e, in effetti, in Iran si fanno le ore piccole soprattutto per scoprire chi perde, piuttosto che chi vince.

 


Il secondo elemento che emerge dalle urne è la vitalità del rivoluzionario dalle sette vite Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, rinato dopo un decennio di umiliazioni per dire “nessuno può resistere alla volontà della maggioranza” e candidarsi a diventare ancora una volta il kingmaker della nuova Guida suprema. La schiacciante performance del ticket Rafsanjani-Rohani nelle votazioni per il Consiglio degli Esperti deve molto alla mobilitazione trasversale contro il trio di oltranzisti conosciuti con l'acronimo JYM (Ahmad Jannati, Mohammed Yazdi e Mesbah Yazdi), ma è anche l'ammissione della debolezza conclamata dei riformisti vecchia maniera. Nella nuova normalità promessa da Rohani non si vagheggia tanto la “democrazia islamica” quanto lo sviluppo. Certo in mezzo al mucchio c'è sempre il candidato che ti fa palpitare: Parvaneh Salahshori, una riformista probabilmente eletta al Majlis ha detto a Viviana Mazza del Corriere della Sera che sarebbe giusto se un giorno l'hijab potesse essere una scelta piuttosto che un'imposizione.

 

Resta il fatto però che Mohammed Khatami, tornato in partita come il padre nobile di un movimento che pareva defunto con apparizioni virtuali evocative e realiste al punto giusto, si è rassegnato a promuovere candidati centristi (il trionfo dei riformisti è un'inspiegabile illusione ottica dei telegiornali occidentali) e la dinamica più interessante per gli Iran-watcher sarà quella tra pragmatici e oltranzisti. Rohani ha diluito il potere dei falchi e la sua prossima mossa sarà corteggiare con ancora più vigore i conservatori tradizionali. In parte lo ha già fatto assicurandosi il favore di Ali Larijani, capo del Parlamento uscente in rotta con il Fronte della Fermezza (ma appoggiato da Qassem Suleimani che gli ha regalato un endorsement alla vigilia del voto), disposto ad alleanze che gli conservino il suo posto al sole.

 

Il terzo fattore da tenere presente è che a contrastare il gattopardismo di Rafsanjani rimarrà il blocco degli altri maggiorenti del sistema, i pasdaran, invisibili nell'urna, ma ubiqui nell'economia. Rohani ha chiesto a tutti gli iraniani – dentro e fuori dalle istituzioni – di trovare una “voce comune”, ma tutto lascia supporre che le faide tra “i fucili e i turbanti” siano lontane dalla fine.

 

“Cari cittadini! Attenzione per favore, attenzione. Teheran è libera”, era la frase più scambiata su Telegram domenica mattina. Ma Teheran purtroppo non è ancora libera e il regime ci ha solo regalato l'ennesima occasione per parteggiare tra buoni e cattivi e scoprire come alla fine di un brutto sogno che i buoni non esistono.

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