Da qualche giorno la Danimarca ha cominciato a fare controlli a tappeto al confine. Il capo del governo Slovacco ha detto che dopo Colonia chiuderà le porte ai profughi musulmani (foto LaPresse)

Immigrati ma diffusi

Roberto Volpi
E se più che le politiche tedesche, l’accoglienza scandinava o il multiculturalismo francese fosse quello (involontario) italiano il modello vincente di integrazione? Numeri

Pontedera è la città dell’intramontabile Vespa – questo lo sanno tutti. E’ anche la città  dei senegalesi – e questo invece  si sa un po’ meno. A oggi conta quasi 30 mila abitanti,  4.500 circa dei quali stranieri, tra cui 1.373 senegalesi. Se si pensa che in Italia sono in tutto 94 mila, con un po’ di calcoli si vede subito che a Pontedera i senegalesi sono 29 volte quelli che dovrebbero essere se si  distribuissero sul territorio nazionale in modo proporzionale rispetto alla popolazione. I senegalesi, che da quando è iniziato il loro insediamento sono impantanati nella vendita di fazzoletti, calzini, ombrelli, braccialetti di vari materiali e altre cianfrusaglie di qualità che lascio immaginare in tutti i luoghi dove si addensa o passa un po’ di gente hanno avuto successo a Pontedera per il fatto che la città della Piaggio sta tra Pisa e Firenze, ed è attraversata da una linea ferroviaria che collega le due città con un treno ogni venti minuti. Non so se è stato il successo dei primi insediati, a fare dei senegalesi di Pontedera una comunità dedita a una attività che sta tra la questua e il commercio minuto, minutissimo. L’ipotesi non è da escludersi. In fondo è il successo dei precursori che porta all’emulazione e all’allargamento e al consolidamento del successo da parte di chi viene dopo. Com’è stato per i cinesi in quel di Prato: oltre 16 mila in una città di 190 mila abitanti. Qui l’insediamento è ben più manifatturiero, fabbrichette su fabbrichette sempre al centro dell’attenzione pubblica e della magistratura per ritmi di lavoro e condizioni ambientali peggio che spartane, con inevitabile corollario di incidenti e inchieste. Ma anche negozi su negozi, ritrovi su ritrovi, che hanno per così dire colonizzato interi quartieri del centro  città. Ed è quanto mai significativo che la vera Chinatown italiana sia fiorita in una città di provincia di meno di 200 mila abitanti, e non in una delle grandi metropoli: non a Milano, meno ancora a Roma. Significativo e rappresentativo di un “modello diffusivo” dell’immigrazione sul suolo italiano che ha caratteristiche peculiari tali da consentirci, al di là delle troppe discussioni circa l’italica inadeguatezza e più ancora ritrosia all’accoglienza, di praticare nei fatti una politica di integrazione soft, nel senso di poco stringente e meno ancora obbligata, eppure a suo modo efficace e capace di ottundere gli elementi di pericolosità sociale (non solo per quanto riguarda minacce di tipo terroristiche) legati, in Europa e nel mondo, ai  troppo forti e quasi esclusivi insediamenti di immigrati.

 

Vediamo un po’ meglio, allora, in che consiste questo modello, e perché in certo senso ci rassicura circa le ondate migratorie dei vent’anni trascorsi (ché, questo davvero sono state se ci troviamo oggi con oltre 5 milioni di stranieri regolarmente residenti, e svariate centinaia di migliaia che non lo sono o non lo sono ancora e una proporzione di immigrati anche soltanto regolari – l’8,2 per cento della popolazione – superiore  a quella di quasi tutti quei paesi dell’Europa del nord che pure non fanno che menar vanto delle loro capacità di accoglienza).

 

Siamo l’Italia dei mille campanili. E non sempre questo è un male. Nel caso dell’immigrazione, ad esempio, è senz’altro un bene. L’immigrazione non si è concentrata, da noi, nelle grandi città, nelle metropoli, e al loro interno, in periferie estranianti più o meno degradate che costituiscono mondi a sé, lontani e avulsi dai centri urbani, dal loro fervore, dalle loro opportunità. Nelle dieci più grandi città italiane si concentra il 14,4 per cento della popolazione e il 20,4 per cento degli stranieri residenti in Italia: c’è un divario, come non poteva non esserci, ma nessuna concentrazione abnorme o decisiva, dal momento che i 4/5 degli stranieri non risiedono nelle nostre dieci più grandi città – che sono poi anche tutte quelle che superano i 300 mila abitanti. Il modello diffusivo si conferma ancor più se si prendono le 26 città italiane che nel 2015 superavano i 150 mila abitanti, che comprendono poco meno del 20 per cento degli abitanti e il 27,5 per cento degli stranieri residenti: il divario si conferma, ma al contempo si attenua. Insomma l’immigrazione prende la via delle città grandi e medio-grandi, ma con moderazione, le sceglie ma senza dimenticare tutte le altre. E tra le città grandi e medio-grandi a loro volta non c’è un vero campione, non c’è una città che sbaraglia la concorrenza. Il record della popolazione straniera residente spetta, col il 18,6 per cento degli abitanti, a Milano: seconda città italiana dopo Roma e capitale finanziaria-industriale, molti sostengono anche morale, del paese. Vero, ma a due passi da Milano Brescia vanta lo stesso primato, e fa quasi altrettanto la vicina Bergamo. Attorno al 18 per cento si aggirano pure gli stranieri residenti nella già citata Prato e a Reggio Emilia, mentre sfiorano il 16 per cento a Vicenza e Padova, in Veneto,  e a Modena e Parma, in Emilia. Da non sottovalutare è anche il fatto che tutte queste città di provincia superano, quanto a proporzione di stranieri residenti nella popolazione,  le rispettive capitali  di regione – Venezia, Bologna e Firenze, pur se  queste ultime due superano a loro volta la soglia del 15 per cento. E’ anche questo un segno di un modello diffusivo dei flussi migratori che si stabilizzano sul nostro territorio seguendo, semmai, un’unica vera discriminante: ch’è ancora e sempre quella nord-sud. Al nord e al centro la proporzione degli stranieri nella popolazione è praticamente la stessa, rispettivamente il 10,7 e il 10,6 per cento. Proporzione che precipita al sud al 3,8 per cento e al 3,2 per cento nelle isole: un terzo e neppure la densità di insediamento che si riscontra al centro-nord. E, a proposito di segni, qui c’è invece, indirettamente ma assai corposamente, il segno delle difficoltà in cui si dibatte non la sola economia del Mezzogiorno ma la sua stessa complessiva situazione sociale e culturale, che si riflette sulle possibilità di accoglienza e integrazione di flussi migratori che, se pure approdano in quelle regioni, non vi si fermano  preferendo, quasi al gran completo, risalire l’Italia in cerca di miglior fortuna.
Una migliore fortuna che, certo, non è sempre a portata di mano, ma che neppure è preclusa a quanti vengono a cercarla proprio nel nostro paese. Anzi. E se Milano è la prima città l’Emilia-Romagna è la prima regione, con la Lombardia a ruota, per proporzione di stranieri residenti, seguite da Veneto, Toscana e Lazio praticamente sulla stessa linea. Una classifica che, completata dal Piemonte, parla da sola su quanto le opportunità/possibilità di lavoro orientino le direttrici dei flussi migratori e le loro decisioni di stanzialità.  Ma meglio sarebbe volgere questi tempi al passato, giacché i fenomeni in discussione sono gli effetti di una stratificazione ormai ventennale mentre le correnti migratorie sono oggi in grande sommovimento e, almeno sul momento,  sembrano prediligere altre rotte, più a nord dell’Europa, all’Italia e agli altri paesi mediterranei. Tant’è che nel 2012 il saldo  positivo dei movimenti migratori da e verso l’estero dell’Italia è stato di 244 mila, sceso a 182 mila nel 2013 e a 141 mila nel 2014. Né sembra che il calo del saldo migratorio accenni a fermarsi pur in questo 2015 tanto vistosamente segnato dall’esodo di intere popolazioni dalle regioni e dagli scenari di guerra mediorientali. Ma in questo quadro, e per questi motivi, è da sottolineare che mentre diminuiscono gli ingressi nel nostro paese per motivi di lavoro la grande novità è rappresentata dalla notevole crescita degli ingressi per asilo e protezione umanitaria, che sono più che raddoppiati in termini assoluti (+28.727 ingressi) mentre,  in termini relativi, sono passati a rappresentare dal 7,5 nel 2013 al  19,3 per cento di tutti gli ingressi nel 2014.

 

Nonostante la crisi economica abbia colpito più duramente la popolazione straniera, ancora alla fine del 2013, anno clou della crisi, il tasso di occupazione di questa popolazione continuava a essere superiore a quello della popolazione italiana, tanto che, pur non arrivando allora a rappresentare l’8 per cento della popolazione italiana, costituiva però l’11,2 per cento della sua forza lavoro. Certo, questa è anche una conseguenza della più giovanile struttura per età della popolazione straniera rispetto a quella italiana, che si manifesta in modo particolare nella fascia d’età di 25-45 anni, ma copre tutto l’arco dell’età lavorativa  di 20-64 anni. E tuttavia si deve pur sempre annotare come, diversamente dall’Italia, il tasso di occupazione degli stranieri sia più basso di quello delle rispettive popolazioni autoctone in quasi tutti, se non proprio in tutti, i paesi europei di più lunga storia di immigrazione: dalla Svezia alla Germania, dalla Francia al Belgio ai Paesi Bassi. Occorrerà vedere come la progressiva uscita dalla crisi, e la correlata ripresa dell’occupazione, per quanto non del tutto soddisfacente, si è riflessa sulla popolazione straniera residente nei nostri confini, ma non appare del tutto convincente la spiegazione del superiore tasso di occupazione degli stranieri rispetto a quello degli italiani fondato esclusivamente sulla considerazione della più giovanile struttura per età dei primi rispetto ai secondi (che porta, peraltro, gli stranieri ad avere anche un tasso di disoccupazione, e non solo di occupazione, superiore). Manca infatti in questa spiegazione la considerazione della capacità dell’economia italiana di offrire, proprio in consonanza con il modello di immigrazione diffusa, un maggior numero di ambiti, pieghe e anfratti, economicamente e produttivamente parlando, entro i quali la popolazione straniera può trovare spazi anche autonomi di lavoro, impresa, attività. Il tutto accresciuto dal fatto che la popolazione italiana di età sempre più avanzata in costante aumento (sono ormai quasi due milioni le persone di 85 e più anni) richiama in Italia una immigrazione di stampo soprattutto femminile che arriva dai paesi dell’est Europa ma ormai anche da  nazioni come le Filippine o il Perù, in fortissima crescita.

 

E, a proposito di crescita, si sta ormai andando, anche in Italia, verso la crescita impetuosa degli stranieri residenti di seconda generazione. E tra questi, di quanti acquisiscono la cittadinanza  italiana. Nel 2014 in ben 130 mila hanno acquisito la cittadinanza italiana, quasi tutti cittadini non comunitari regolarmente residenti nel nostro paese. Un dato del quale si coglie meglio l’ordine di grandezza se si considera che quasi eguaglia il saldo migratorio con l’estero di 141 mila unità registrato nello stesso anno.

 

Negli ultimi quattro anni è rapidamente cresciuto il numero di cittadini non comunitari che diventano italiani, passati da meno di 50 mila nel 2011 a oltre 120 mila nel 2014 (+143 per cento). Le acquisizioni di cittadinanza nel 2014 hanno riguardato principalmente i marocchini (29.025) e gli albanesi (21.148), e dunque l’immigrazione da paesi musulmani. Ma a questo riguardo il fenomeno che più ci deve interessare è la crescita, proporzionalmente enorme per non dire abnorme, di quanti acquisiscono la cittadinanza per trasmissione dai genitori o perché, essendo nati in Italia, al compimento del diciottesimo anno di età scelgono la cittadinanza italiana: da circa 10 mila nel 2011 sono passati a 48 mila nel 2014, con un aumento di quasi il 500 per cento. Tra quanti hanno acquisito la cittadinanza italiana nel 2014, il 40 per cento è costituito da persone di meno di 20 anni. Il boom degli stranieri residenti, giovani in particolare, di seconda generazione con cittadinanza italiana è  dunque in atto. Di questi residenti, come sappiamo bene, si parla molto specialmente in Francia, Inghilterra, Belgio e in altri paesi come esempio di integrazione mancata. E’ tutt’altro che infrequente scoprire che è nelle loro file che si annidano cellule terroristiche e frange violente antisistema colpevoli di attentati sanguinosi e sommosse. Fanno parlare spesso di sé, e quasi sempre per imprese negative. Sono fonte di grande preoccupazione e di altrettanto impegno  in termini  sia di politiche sociali che di servizi di intelligence e di ordine pubblico. Rappresentano la controprova, la rappresentazione plastica, come suol dirsi, dei tanti errori commessi dall’occidente nelle politiche di accoglienza e integrazione. A loro si guarda come a forse il più grande punto interrogativo che pesa sul futuro dell’Europa. Il “modello di immigrazione diffusa” seguito o per meglio dire determinatosi nell’Italia dei mille campanili, e altresì dei mille mestieri, delle pratiche artigianali e commerciali a un tempo peculiari e di successo, quel modello che in certo senso ha “disperso”, e tuttora disperde in mille contrade i cittadini immigrati, è senz’altro quello che consente all’Italia di correre i minori rischi sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblico, offrendosi altresì a una più alta possibilità di controllo sociale: non soltanto da parte delle forze dell’ordine, ma proprio di tipo ambientale, visto e considerato che mancano quasi del tutto in Italia le enclave di grandi dimensioni di stranieri con cittadinanza acquisita o in via di acquisizione quasi precluse alle popolazioni autoctone. Ciò non vuol dire, è pleonastico aggiungere, che l’Italia abbia in sé un grado di sicurezza intrinseco tale da farci sentire tranquilli, ma soltanto che in una eventuale scala di rischio essa, che pure è ormai tra i paesi a più alta densità di cittadini stranieri, occupa una posizione di retroguardia piuttosto che il contrario.

 

[**Video_box_2**]Tra i fattori che comprimono questo rischio, costringendolo entro limiti ragionevoli, ce n’è uno poco sconosciuto anche in quanto imprevedibile. Sul  Report del 28 ottobre 2014, che riportava i risultati della  prima ricerca svolta in Italia su “Soddisfazione, fiducia e discriminazione tra i cittadini stranieri”, l’Istat scriveva espressamente che “alla domanda ‘attualmente, quanto ti ritieni soddisfatto della tua vita nel complesso?’, il punteggio medio indicato dai cittadini stranieri di 14 anni e più è pari a 7,7, su una scala da 0 a 10, mentre quello degli italiani è più contenuto e non va oltre 6,9”. Il risultato non cambia nelle nostre tre più grandi città (Roma, Milano, Napoli, anche se è più basso a Napoli), mentre meno di 3 stranieri su 100 si attribuiscono un grado di soddisfazione di non più di 4, e dunque molto basso, e ciò implica che le zone/aree di vero disagio socio-economico e culturale tra gli stranieri sono comunque limitate e ristrette e non riguardano le metropoli più delle altre grandi e piccole città. Nonostante ciò si ha l’impressione che soltanto su queste aree, o almeno a grande maggioranza su queste aree, si appuntino i riflettori delle indagini di costume, degli allarmi sociali e delle indignazioni periodiche di mass media e opinione pubblica. Sfruttamento intensivo nell’agricoltura del sud,  coinvolgimento nei traffici di droga al nord, criminalità nelle città: è in questi ambiti che più si sente parlare di stranieri, al punto che spesso scatta un’identificazione: africani e cittadini dell’Europa dell’est che risiedono entro i nostri confini questo fanno: o si lasciano sfruttare bestialmente o bestialmente si comportano. Ma un grado di soddisfazione per la propria vita così alto degli stranieri residenti in Italia, che si manifesta oltretutto anche riguardo al lavoro, implica un quadro delle condizioni della loro esistenza quotidiana che non è quello che noi italiani descriviamo e che le organizzazioni umanitarie e la stessa chiesa cattolica contribuiscono ad accreditare. E’ indubbio che sui punteggi del grado di soddisfazione pesano le diverse aspettative, assai più grandi e dunque più facili alla delusione da parte degli italiani.   Ma su questa alta  considerazione dei cittadini stranieri per la loro vita in Italia influiscono soprattutto buoni proprio in quanto molteplici livelli di accoglienza e integrazione, buone proprio in quanto molteplici possibilità di lavoro e realizzazione consentiti dal modello diffusivo di immigrazione realizzatosi in Italia. Pur nelle evidenti sacche di sofferenza e disagio che permangono e che non si possono ricondurre a casuale marginalità, tutto considerato proprio questo modello consente di guardare ai cittadini stranieri in Italia, anche a quelli di seconda generazione con la nostra cittadinanza, che tante preoccupazioni destano nel mondo, con una ragionevole, pur se doverosamente giudiziosa e attenta, dose di fiducia.