La Turchia ha perso il suo charme

Eugenio Dacrema
Dopo la vittoria dell’Akp, abbiamo chiesto ad alcuni esperti se il ruolo stabilizzatore della Turchia è plausibile e che ne sarà del modello turco. Girotondo di opinioni.

Per Erdogan i risultati delle elezioni del 1° novembre sono stati un trionfo, almeno guardandoli dalla prospettiva del giugno scorso. Cinque mesi fa l’Akp otteneva appena il 40 per cento, perdeva la sua maggioranza e assisteva al trionfo del curdi del Hdp. Il panorama risulta però molto diverso se i risultati odierni li si guarda dalla prospettiva di 4 anni fa. Nelle elezioni del 2011 l’Akp totalizzava la stessa percentuale, ma l’economia volava, le primavere arabe investivano la Turchia di un nuovo ruolo regionale e il governo sembrava a un passo dallo storico accordo col Pkk. Numero di voti a parte, quindi, le cose oggi appaiono assai diverse. L’economia ristagna da almeno due anni. L’instabilità nel quadro politico ha portato a una fuga degli investimenti esteri di cui la Turchia ha disperato bisogno per pareggiare l’enorme deficit di partita corrente. Le ultime elezioni potrebbero riportare stabilità, ma lo spettro di un rialzo dei tassi della Fed incombe minaccioso, e rende improbabile un ritorno al periodo d’oro del 2011. In politica estera Erdogan ha dissipato il patrimonio di credibilità guadagnato in un decennio di “zero problemi coi vicini”. Le primavere arabe hanno sterzato bruscamente e preso una direzione molto lontana da quella in cui l’Akp e gli alleati della Fratellanza musulmana internazionale speravano. L’avversario siriano, Bashar el Assad, è ancora in piedi; il conflitto siriano invece di portare gloria e potere ad Ankara ha portato bombe e destabilizzazione, nonché la fine del processo di pace coi curdi. Insomma, guardandola con gli occhi del 2011 quella di oggi appare una battaglia vinta, ma in una partita che vede la Turchia in complessivo declino. L’Akp avrà poco tempo per festeggiare; dovrà subito tornare a fronteggiare riforme economiche, processi di pace e pantani internazionali nei quali dovrà incanalare molto del proprio capitale politico. Un capitale che potrebbe non essere sufficiente, soprattutto se una grossa parte dovrà essere spesa per cambiare la costituzione secondo i desiderata di Erdogan. Da sempre sono i paesi sicuri della propria forza e del proprio futuro che sanno agire da stabilizzatori sia all’interno sia all’esterno dei loro confini, altrimenti si tratta solo di giocatori deboli che tentano di massimizzare il proprio profitto a discapito degli altri. Oggi la Turchia sembra aver perso sia lo charme del modello da imitare sia il potere economico-diplomatico del game-changer. Più che una fonte di stabilità, un altro giocatore debole con il quale sia il fragile medio oriente sia l’Europa devono fare i conti.

 

Eugenio Dacrema è ricercatore dell'Università di Trento, Scuola di Studi Internazionali

 

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