Soldati messicani intorno alla casa da cui sbuca il tunnel usato da Joaquín Guzmán per l'evasione (foto LaPresse)

Perché dopo l'evasione del "Chapo" Guzmán gli americani sono arrabbiati neri

Eugenio Cau
Da quando è stato eletto il nuovo presidente, il governo di Città del Messico ha raffreddato la collaborazione anticrimine con Washington e ora, dicono gli americani, ne stiamo pagando le conseguenze. Il video della fuga del boss

Prima dell’evasione di Joaquín “el Chapo” Guzmán, il più potente narcotrafficante del mondo, l’antidroga americana aveva avvertito le autorità messicane che il boss stava già mettendo a punto dei piani di fuga appena un mese dopo il suo arresto, nel febbraio del 2014. I messicani hanno ignorato gli avvertimenti. Dopo l’evasione, in cui Guzmán è uscito dal carcere di massima sicurezza di Altiplano da un tunnel di un chilometro e mezzo che iniziava nella doccia della sua cella e finiva in una casa sicura fuori dalla prigione, le agenzie di sicurezza americane hanno offerto al governo di Città del Messico tutti i mezzi necessari per ricatturare il ricercato. I messicani ancora non hanno risposto alle offerte di aiuto.

 

Martedì il governo messicano ha reso noto il video degli ultimi momenti di Guzmán in cella prima della fuga. Lo si vede camminare nervosamente lungo lo spazio ristretto che separa la sua branda dalla latrina – le foto della cella mostrano un ambiente lurido, asfissiante –, poi ripararsi nell’angolo cieco dove si trova la doccia, dove le telecamere non potevano arrivare “per rispetto della privacy”, ha detto il ministro dell'Interno Miguel Angel Osorio Chong martedì. Sparisce nella doccia, e quella è l’ultima volta in cui la telecamera di Altiplano registra il boss dei boss. Sbucherà poco dopo nel quartiere di Santa Juanita ad Almoloya de Juárez, da uomo libero, con un elicottero che lo aspetta, secondo alcuni testimoni locali.

 

 

La fuga di Guzmán ha danneggiato enormemente la credibilità del governo messicano di Enrique Peña Nieto, e fin da sabato dalla Casa Bianca e dalle agenzie di sicurezza americane sono giunte voci di disappunto, se non di rabbia, per l’evasione del criminale più ricercato del mondo. Se il Chapo fosse stato detenuto in una prigione americana non avrebbe avuto le connessioni e i mezzi per fuggire, dicono da Washington, ma nonostante le richieste di estradizione (decise, ma mai ufficiali), a Città del Messico il governo si è sempre rifiutato di mandare Guzmán al sicuro in America, per orgoglio nazionale e per la necessità di esibire il suo migliore trofeo. Passeranno 200 o 300 anni prima che possiamo estradare il Chapo, diceva scherzosamente il procuratore generale messicano, ma ora che Guzmán è di nuovo in circolazione a Washington sono furenti, perché l’evasione è solo l’ultima goccia di un rapporto di collaborazione contro la criminalità organizzata che negli ultimi anni è diventato sempre più frustrante. Città del Messico ha nuove priorità oggi, e la caccia ai narcotrafficanti è un affare a cui il governo dedica sempre meno risorse ed energia, lasciando gli uomini di Washington a lavorare da soli, a volte perfino intralciandoli.

 

In un articolo molto informato e molto duro pubblicato mercoledì, il New York Times racconta come rispetto al suo predecessore Felipe Calderón, il presidente Peña Nieto, eletto nel 2012, abbia trasformato il clima tra le unità anticrimine americane e messicane da collaborativo a ostile. Il nuovo presidente ha da sempre altre priorità in mente, la crescita economica e le riforme, e ha destinato i suoi uomini peggiori alla guerra contro il narcotraffico, quando ne ha destinati: scrive il Times che nel centro per le operazioni congiunte di Città del Messico gli agenti americani lavorano quasi da soli, perché il governo non manda i suoi uomini. A livello operativo la decisione di centralizzare le comunicazioni delle forze dell’ordine in un unico ufficio ha creato un sovraccarico di informative di intelligence americane che il nuovo organismo non è riuscito a gestire adeguatamente. A livello di fiducia, la collaborazione piena dei tempi di Calderón è tornata ai rapporti tiepidi che c’erano in precedenza: “I messicani pensano che noi siamo dispotici e imperialisti, noi pensiamo che loro sono corrotti”, ha detto al Times Adam Isacson, membro senior del Washington Office on Latin America. Il governo messicano si è opposto alla richiesta di Washington di sottoporre alla macchina della verità gli agenti d’elite che avrebbero lavorato insieme agli americani, ha ridotto drasticamente le estradizioni e ha reagito blandamente quando nel 2013 un giudice ha rilasciato grazie a un cavillo legale Rafael Caro Quintero, un narcotrafficante sospettato di aver ucciso un agente americano nel 1985.

 

[**Video_box_2**]La riluttanza a cooperare ha anche fatto fallire molte operazioni anticrimine importanti, dicono le fonti del New York Times. Quando l’antidroga americana premeva per un arresto, i messicani rallentavano, quando chiedeva un raid delle forze speciali, i messicani lo negavano, e il sospetto fuggiva come se fosse stato avvertito da qualcuno. “Mi vengono in mente almeno cinque occasioni in cui siamo stati vicini a un arresto e qualcuno ha fottuto l’operazione”, ha detto Carl Pike, agente della divisione per le operazioni speciali della Dea, l’antidroga americana. Ora che Guzmán è di nuovo libero, e che il mondo della droga potrebbe recuperare il suo imperatore, servirebbe più cooperazione, non meno. Ma a Città del Messico non rispondono al telefono.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.