Ayaan Hirsi Ali (foto LaPresse)

Hirsi Ali, una Lutero per l'islam

Paola Peduzzi
Non sottomessa, infedele, nomade, eretica. Ayaan Hirsi Ali è tutto questo, e molto di più, forse semplicemente “un’eroina”, come disse l’intellettuale Christopher Hitchens quando gli chiesero chi erano le eroine della sua vita.

Non sottomessa, infedele, nomade, eretica. Ayaan Hirsi Ali è tutto questo, e molto di più, forse semplicemente “un’eroina”, come disse l’intellettuale Christopher Hitchens quando gli chiesero chi erano le eroine della sua vita – la mise assieme alle donne dell’Iraq, dell’Afghanistan, dell’Iran, “che rischiano le loro vite e la loro bellezza per sottrarsi alla sporcizia della teocrazia”. Hirsi Ali ora vuole essere una riformatrice: scrive nel suo ultimo libro “Eretica”, pubblicato negli Stati Uniti da HarperCollins e in arrivo in Italia con Rizzoli a metà aprile, che quando aveva iniziato a pensare a un libro sulla riforma dell’islam l’aveva concepito come un romanzo, dal titolo “The reformer”, “volevo raccontare la storia di un imam carismatico a Londra che si sarebbe imposto come un Lutero musulmano dell’èra moderna”. Poi abbandonò l’idea, “un libro così sarebbe stato liquidato come fantasioso”. Allora Hirsi Ali ha scritto “Eretica”, perché non vuole parlare di un mondo inventato o eccentrico, “la riforma dell’islam non è una fiction – scrive – E’ un fatto”, sta avvenendo, e il suo obiettivo è quello di cambiare il corso della storia dell’islam voluto dagli islamisti.

 

Nelle prime interviste date in questi giorni, Hirsi Ali ribadisce spesso che in questo libro, in cui spiega come si può riformare l’islam, punto per punto (sono cinque in tutto), c’è un messaggio ottimista. Deve ripeterlo, perché Hirsi Ali è considerata nei migliori dei casi controversa, nella maggior parte dei casi una distruttrice, un’islamofoba, una che vuole sterminare l’islam, una che non rispetta la religione in cui è cresciuta e che ha ripudiato, una che vuole convincere l’occidente che lo scontro di civiltà si vince soltanto spianando il nemico. Una pessimista che vede il mondo dell’islam come un buco nero che ingoia precetti velenosi e sputa violenza e pericolo. Hirsi Ali non è niente di tutto ciò, è una dissidente – una dissidente di cui ci ricordiamo il nome, a differenza di molti altri, scrive lei, dedicando a queste persone ignorate l’appendice di “Eretica” – che oggi si rende conto che una riforma, dentro all’islam, è possibile, è già in atto, va definita e incoraggiata, ma c’è.

 

Hirsi Ali divenne nota al grande pubblico quando il suo nome comparve sul biglietto appuntato con un coltello sul cadavere di Theo Van Gogh, ucciso il 2 novembre del 2004 da Mohammed Bouyeri (lo stesso coltello con cui Bouyeri aveva cercato di decapitare van Gogh, dopo avergli sparato otto colpi, senza ucciderlo, e avergliene sparato un altro mentre Van Gogh chiedeva pietà). Hirsi Ali era amica di Theo, ed era dopo di lui nella lista degli obiettivi da uccidere, e da lì è iniziata la sua vita da non sottomessa, da infedele, da nomade, da eretica. Ha raccontato la sua storia, dalla Somalia all’Olanda passando per la Mecca, Riad, il Kenya e oggi l’America (è sposata con lo storico Niall Ferguson, lui ha lasciato moglie e figli per lei, vent’anni di matrimonio volatilizzati, e ora difende Ayaan dai suoi tanti detrattori, in questi giorni ha ingaggiato una battaglia su Twitter con Glenn Greenwald, è finita quasi a insulti), nei suoi libri precedenti: in “Eretica” ripercorre la sua formazione da musulmana, le preghiere sotto l’albero in Somalia, le punizioni a scuola quando i bambini non ripetevano correttamente un versetto del Corano, l’inadeguatezza di quando, arrivata a sette anni alla Mecca, a scuola era la più scarsa di tutte, perché non scandiva bene le parole del Libro, e le altre bambine saudite la chiamavano “abid”, schiava, perché aveva la pelle scura e la schiavitù, in Arabia Saudita, era stata abolita soltanto qualche anno prima. Racconta anche che, una volta trasferitasi a Nairobi, ha fatto delle scoperte importanti: “Soltanto a dieci anni, in Kenya, ho scoperto che eravamo nel 1980”, nessuno fino ad allora le aveva spiegato come funzionavano i calendari al di fuori del mondo musulmano. In Kenya, Hirsi Ali scopre anche che l’islam non è soltanto preghiera e punizione, punizione e preghiera, che la storia dell’islam non è soltanto date e califfati, un’insegnante a scuola, velata da capo a piedi, cambia tutto: “Non insegnava, predicava”. E Hirsi Ali inizia a indottrinarsi, entra nella Fratellanza musulmana, che appariva come “l’islam in azione”, perché prendeva i ragazzini che altrimenti ciondolavano per strada e li metteva nelle madrasse, a pregare e a studiare: “Guardando indietro ora capisco che molte persone hanno abbracciato la Fratellanza prima di tutto perché portava ordine”. Soltanto quando arriva il matrimonio combinato – una transazione durata una decina di minuti, con un ragazzo dello stesso clan della famiglia di Hirsi Ali che viveva in Canada, e che, presentandosi, parlando mezzo in somalo e mezzo in inglese, le disse soltanto che voleva sei figli – Hirsi Ali decide di ribellarsi. Dice che era sempre stata una rompiballe, faceva tante domande – domande da bambina, “perché sono trattata in modo così diverso da mio fratello?”, “perché non sono un maschio?”, e sente ancora oggi nell’aria la voce della mamma e della nonna che le ribattevano: “Stupida bambina, piantala con tutte queste domande” – ma che fu una risposta a cambiare la sua vita. Quella di suo padre quando gli chiese: perché devo sposarmi? Non voglio. La data è già decisa, disse lui – che in famiglia era quello più tollerante, aveva un’idea di islam molto meno punitiva di quella della mamma – ma potrai consumare il matrimonio, aggiunse papà, quando arrivi in Canada, ho già comprato i biglietti. Faceva scalo in Germania, quell’aereo, e una volta arrivata a Düsseldorf, Hirsi Ali uscì dall’aeroporto, valutò le sue opzioni, andò a Bonn, prese un treno per Amsterdam, richiedendo asilo politico per la guerra civile in Somalia, sapendo di essere soltanto una promessa sposa in fuga.

 

Hirsi Ali racconta tutto questo per spiegare che ci sono tre tipi di musulmani: i più sono i “Mecca Muslims”, quelli come lei da ragazzina, persone devote, che rispettano il Corano, che disprezzano chi insulta il Profeta, che cercano di adattare i precetti religiosi alla vita quotidiana, in una continua forma di adattamento e transizione. Gli islamisti, i fondamentalisti, i violenti sono i “Medina Muslims”, quelli che si rifanno a Maometto una volta arrivato a Medina, quando il predicatore del deserto diventò un simbolo politico di assoluta moralità: “I non credenti continuavano a essere invitati a sottomersi ad Allah – scrive – ma dopo Medina, se rifiutavano venivano attaccati. Se vinti, potevano scegliere: o convertirsi o morire”. Sono questi “Medina Muslims” che chiamano gli ebrei e i cristiani maiali e scimmie, sono loro che lapidano le adultere e impiccano gli omosessuali: “Non vogliono soltanto seguire gli insegnamenti di Maometto – spiega Hirsi Ali – ma vogliono emulare il suo ruolo di condottiero di guerra adottato dopo l’arrivo a Medina. Anche se non sono direttamente loro a usare la violenza, non esitano a giustificarla”. Sono una minoranza, certo, “Ed Husain stima che rappresentano soltanto il 3 per cento del mondo musulmano. Ma su un miliardo e seicentomila credenti, cioè il 23 per cento della popolazione mondiale, questi 48 milioni di persone sembrano più che abbastanza”.

 

Poi ci sono i dissidenti, o come li definisce Hirsi Ali, i “Modifying Muslims”. Ci sono credenti e ci sono non credenti, nel gruppo, ma quel che sta a cuore a questi musulmani è il futuro dell’islam, cosa sarà, come si evolverà, se vinceranno i musulmani di Medina o se invece i musulmani della Mecca si lasceranno affascinare dai riformatori, “quelli che devono affrontare l’ostracismo e il rifiuto, che devono sopportare gli insulti e le minacce di morte, o la morte stessa”.

 

Finora questi musulmani si sono mossi a livello individuale, ognuno con la propria battaglia, ma è questo che deve cambiare: come i “Medina Muslims” si riuniscono in gruppi e fanno massa – massa feroce, violenta, ripresa dai media internazionali – anche i “Modifying Muslims” devono organizzarsi, unirsi, creare quel contesto intellettuale che può mettere fine al totalitarismo dei fondamentalisti.

 

Hirsi Ali fa spesso riferimento al crollo dell’Unione sovietica. Lo fa subito, nell’introduzione, quando spiega che la riforma dell’islam non è una questione che riguarda soltanto i musulmani, ma anche tutti i liberal occidentali benpensanti che pensano che la violenza dell’islam sia spiegabile con i problemi sociali, la povertà, la politica estera dell’occidente e l’imperialismo americano (il trattamento che riserva a Barack Obama vale il prezzo del biglietto). “Immaginate che cosa sarebbe successo – scrive – durante la Guerra fredda, se l’occidente avesse dato il suo sostegno non ai dissidenti dell’Europa dell’est – come Václav Havel o Lech Walesa – ma all’Unione sovietica, come rappresentante dei ‘comunisti moderati’, nella speranza che il Cremlino potesse dare una mano contro i terroristi come quelli della Rote Armee Fraktion. Immaginate cosa sarebbe successo se un presidente ‘Manchurian candidate’ avesse detto al mondo: ‘Il comunismo è un’ideologia di pace’. Sarebbe stato un disastro”. E’ quello che sta accadendo adesso con il mondo musulmano: “Ignoriamo i dissidenti, ci illudiamo che i nostri nemici più mortali non siano in qualche modo motivati dall’ideologia che affermano apertamente. E puntiamo tutte le speranze su una maggioranza che è senza una leadership, e che sembra più sensibile alle parole dei fanatici che a quelle dei dissidenti”. L’occidente si concentra sulla violenza e non sulla sua causa, parla di “cancro” e non guarda come è fatto, come reagisce, il corpo che ospita questo male.

 

[**Video_box_2**]La reazione non è sparare a questo corpo. Ospite della trasmissione “Newsnight” della Bbc, Hirsi Ali ha detto: “Non possiamo ‘drone away’, togliere a forza di droni, le cattive idee dalla testa delle persone”. L’occidente si è sforzato, con le guerre, l’intelligence, il controllo, di arginare la violenza estremista, “ma non si è preoccupato di sviluppare una contronarrazione efficace perché ha continuato a negare che l’estremismo islamico è correlato all’islam”. Ancora una volta, Hirsi Ali ricorre alla sconfitta del comunismo dopo la Guerra fredda. Perché quella guerra non è stata vinta soltanto con le pressioni economiche e militari, ma grazie alla comprensione da parte degli Stati Uniti della necessità di una “competizione intellettuale”: “A parte gli ‘utili idioti’ nei campus di sinistra, non dicevamo che il sistema sovietico era moralmente equivalente al nostro, né dichiaravamo che il comunismo sovietico era un’ideologia di pace”, scrive Hirsi Ali, ricordando che l’America ha incoraggiato iniziative culturali, legate direttamente o indirettamente alla Cia, che spingevano gli intellettuali anticomunisti a controbattere al verbo marxista. Oggi non esiste un Congress for Cultural Freedom che combatte, sul terreno delle idee, l’estremismo islamico (un’iniziativa che sarebbe anche economicamente più conveniente dei soldi spesi tra intelligence e guerre), così come non ci sono dissidenti celebrati o almeno riconoscibili – esistono eccome, questi dissidenti, ma non sappiamo mettere in fila tre nomi. Hirsi Ali propone di creare una piattaforma culturale in grado di aggregare chi vuole riformare l’islam, da dentro e da fuori. Su cinque linee principali, che riguardano le incompatibilità tra l’islam e la modernità: lo status del Corano come l’ultima e infallibile parola di dio e l’infallibilità di Maometto come ultimo messaggero della divinità; l’enfasi dell’islam sulla vita dopo la morte più che sulla vita qui e ora; la presunzione che la sharia sia un sistema onnicomprensivo di leggi che governano il potere spirituale e temporale; l’obbligo per i musulmani di ordinare quel che è giusto e proibire quel che è sbagliato; il concetto del jihad, o della guerra santa.

 

Il programma è vasto, Hirsi Ali lo articola capitolo dopo capitolo, ma aprire un dialogo su temi costitutivi dell’islam come questi appare difficile. “Non è facile”, ammette, ma l’onda sta cambiando, la tecnologia non rafforza soltanto i jihadisti, e i riformatori hanno la fortuna di non temere le matite e i libri come invece temono i fondamentalisti, orripilati da tutto ciò che ha a che fare con l’istruzione. Se anche un “riformatore improbabile dell’islam” come il presidente egiziano Sisi (il copyright è del Wall Street Journal), scrive Hirsi Ali, chiede una rivoluzione religiosa parlando ad al Azhar, vuol dire che i tempi stanno davvero cambiando. Anche i musulmani cambiano. “Ironia vuole che scriva questo libro quando molti in occidente si sono rassegnati all’idea che vincere contro l’estremismo islamico non si può e quando le speranze associate alle cosiddette primavere arabe si sono rivelate illusorie”, scrive Hirsi Ali, riscattando però quello che era il messaggio iniziale delle primavere, dimenticato negli stravolgimenti venuti dopo, tra i dittatori rimasti, quelli ritornati e l’occupazione jihadista dei vuoti lasciati dall’indifferenza e dalla mancanza di strategia dell’occidente: “E’ vero, le primavere arabe erano un’illusione, almeno nei termini delle aspettative dell’occidente. Ma penso che molti osservatori occidentali non abbiano colto l’importanza della primavera araba. Qualcosa era – e ancora è – in atto nel mondo musulmano. C’è una parte genuina dell’elettorato che chiede il cambiamento, e non c’era mai stata prima. Ed è un elettorato che trascuriamo a nostro rischio e pericolo”. Perché Hirsi Ali considera un lusso vivere in occidente, poter essere liberi, parlare, discutere, non ci dobbiamo scusare per essere come siamo, “il multiculturalismo non significa tollerare l’intolleranza di un’altra cultura”. E’ ottimista, Ayaan Hirsi Ali, e per una che ha visto la distruzione appuntata sui biglietti che la minacciano di morte, l’ottimismo non è un caso. Ha un obiettivo grandioso: “Una riforma dell’islam avrebbe il lieto effetto di rovesciare il tavolo contro chi mi minaccia”. Siete voi gli eretici, non io.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi