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potere contrattuale e inflazione
I ritardi dei sindacati e il crollo dei salari reali in Italia
Il guaio del potere d'acquisto che evapora non dipende dalla produttività, ma dai tempi folli della contrattazione collettiva. Ecco perchè serve un nuovo patto di relazioni industriali
In Italia i salari reali sono scesi dell’8 per cento tra il 2019 e il 2025, un crollo unico in Europa. La spiegazione è che quando l’inflazione correva oltre il 5 per cento, nel 2022 e nel 2023, i contratti collettivi non sono stati rinnovati. Il meccanismo che lega gli aumenti all’indice Istat funziona solo se i rinnovi arrivano puntuali. Se invece si rinviano proprio negli anni critici, il potere d’acquisto evapora e non torna facilmente indietro. La spiegazione non può essere la scarsa produttività, quello certamente è un nostro problema strutturale, ma un calo così rilevante in così pochi anni non si spiega con una produttività del lavoro che è stata per lo più ferma. Semplicemente le parti datoriali hanno rinviato la firma dei contratti finché l’indice dei prezzi non è tornato al 2 per cento e le una tantum che dovevano compensare i ritardi non sono sufficienti a recuperare l’inflazione. Ma come mai il sindacato non ha usato il suo potere contrattuale per evitare i ritardi negli anni 2022 e 2023? Tendenzialmente il potere contrattuale del sindacato dipende da quanta disoccupazione c’è. Il modo più semplice di spiegarlo è ancora il concetto marxista di “esercito di riserva”, più disoccupati ci sono, più sono disposti a lavorare a salari bassi, più il sindacato è debole. Il paradosso è che la caduta dei salari difficilmente può essere giustificata con la debolezza del mercato del lavoro. Al contrario: la disoccupazione è bassa per gli standard italiani e le imprese dichiarano di non trovare personale e l’“esercito di riserva” oggi è molto più piccolo. E quindi non si spiega perché i sindacati non siano riusciti a evitare ritardi nei rinnovi così clamorosi.
E’ vero caso mai il contrario: che salari più bassi possono generare più assunzioni. Infatti l’occupazione è aumentata di 1,2 milioni di persone, gran parte a tempo indeterminato. Alcune famiglie hanno aggiunto un lavoratore al loro potere d’acquisto e la massa salariale complessiva è cresciuta abbastanza da mantenere quasi stabile la quota del lavoro nel PIL. Ma non bisogna sbagliarsi: è il numero dei lavoratori a essere salito, non il valore reale dei salari che rimane molto più basso rispetto al 2019. Se una maggiore occupazione dovrebbe rafforzare il potere contrattuale del sindacato, perché non è accaduto? Per una ragione istituzionale e una politica. La ragione istituzionale è che temo sia stato largamente sottovalutato il danno per i salari di un anno di ritardo nei rinnovi contrattuali in un contesto di inflazione alta: con inflazione bassa, un ritardo costa poco e si recupera in fretta, con inflazione al 7 per cento costa moltissimo e non si recupera facilmente. La ragione politica è la frammentazione del fronte sindacale: la Cisl impegnata nella partita sulla legge sulla partecipazione che porterà il suo ex segretario addirittura al governo, la Cgil concentrata sulla rivincita identitaria sul Jobs Act di 10 anni fa, la Uil pronta a scambiare il proprio sostegno con la detassazione degli aumenti contrattuali, misura inefficace e deleteria per la progressività dell’Irpef. In questa confusione, la priorità – evitare ritardi nei rinnovi – è stata ignorata. Con le regole attuali non esiste alcun meccanismo che possa restituire automaticamente l’8 per cento perduto.
Per questo serve un nuovo patto di relazioni industriali: clausole di adeguamento del salario in vigenza di contratto, come esistono solo nel contratto dei metalmeccanici che non a caso è uno dei pochissimi contratti ad aver perso relativamente poco terreno; rinnovi automatici dopo un anno; semplificazione delle buste paga; una legge sulla rappresentanza per fermare i contratti pirata. E serve anche un intervento politico: senza un recupero almeno parziale del potere d’acquisto, il prossimo decennio di calo demografico peserà ancora di più sulla crescita. Al di là delle diverse opinioni, serve riaprire la discussione sul salario minimo. Dopo la sentenza della Corte di giustizia, che ha respinto quasi tutto il ricorso della Danimarca e confermato la direttiva europea sulla “adeguatezza” dei salari, non ha più senso celebrare il fatto che l’Italia non sia obbligata a introdurlo. Quando i contratti nazionali si rinnovano, come ora, con aumenti del 2 per cento, non recupereranno mai l’8 per cento perduto in un tempo congruo. Nella manifattura le imprese, pur tra mille difficoltà, possono aumentare le retribuzioni quando non trovano personale attraverso contratti aziendali o accordi individuali. Ma nel commercio, nel turismo, nella logistica questo meccanismo non funziona, infatti i salari di fatto non sono aumentati molto di più di quelli contrattuali. È lì che serve una rete minima di protezione. Non per sostituire la contrattazione, ma per evitare che, ancora una volta, i salari reali scendano e non risalgano più. E’ ben noto che la Francia dove il salario minimo esiste ed è pure tendenzialmente abbastanza elevato, ha recuperato il potere d’acquisto perché i contratti nazionali si sono adeguati immediatamente al rialzo.
L'analisi
Meno evasione e più tasse