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troppi problemi
Dall'automotive all'Ilva: il disastro industriale del governo
Gestione fallimentare dell’Ilva, autolesionismo sull’automotive, disastro su Transizione 5.0, flop dell’Ires premiale, investitori in fuga, manifattura in sofferenza. Non è un complotto: è il made in Italy modello Urso e Meloni
Hai voglia a mettere “made in Italy” nel nome del ministero e a parlare di “seconda manifattura d’Europa”, ma se da tre anni la produzione industriale è in calo vuol dire che il “made in Italy” è in ritirata e che, prima o tardi, l’Italia (14 per cento di produzione in Ue) lascerà il secondo posto alla Francia (12 per cento). L’industria è uno dei grandi problemi del paese e il settore dove il governo Meloni ha fatto peggio. L’eutanasia dell’Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa ormai prossima allo spegnimento, è il caso più significativo ma non l’unico.
Il ministro delle Imprese e del made in Italy (Mimit), Adolfo Urso, aveva iniziato la legislatura con grandi idee da pianificatore parlando di “Stato stratega”. Dopo tre anni, ben oltre la metà del mandato, non si è capito quale sia questa strategia. I numeri sono impietosi. I dati del Centro studi di Confindustria mostrano una manifattura ancora debole: il rimbalzo di settembre dopo il crollo di agosto indica un terzo trimestre del 2025 con produzione negativa (-0,5 per cento). Se si allunga lo sguardo all’indietro il declino è impressionante: -4 per cento della produzione industriale nel 2024 e quasi un altro punto nei primi nove mesi del 2025 (-0,9 per cento). È vero che la Germania ha segnato numeri peggiori, ma altri grandi paesi europei hanno retto, come la Francia, o registrato una moderata crescita, come la Spagna (+0,4 per cento), nonostante un quadro politico meno stabile rispetto alla solidità del governo Meloni (Madrid non fa una legge di Bilancio ormai per il terzo anno di fila, Parigi cambia continuamente governi e ha i conti pubblici sfasciati). Molti problemi arrivano dal passato, come l’Ilva e il costo dell’energia, e altri provengono dall’esterno: i dazi di Trump, la svalutazione del dollaro e la crisi dell’auto. Ma il governo non ne ha risolto neppure uno, in alcuni casi li ha aggravati.
I primi anni di governo il ministro Urso li ha impegnati in misure dall’impatto comunicativo, ma completamente superflue (se non dannose) contro l’inflazione: cartello obbligatorio con i prezzi medi alle pompe di benzina (bocciato dal Tar), il tentativo di “sgominare l’algoritmo” delle compagnie aeree (bocciato dall’Ue), il “carrello tricolore” (bocciato dall’inutilità).
Sul lato delle politiche fiscali, invece, sono state abolite o superate misure che funzionavano bene come l’Ace per rafforzare il capitale proprio delle imprese e Transizione 4.0. Al loro posto, sono state introdotte misure che sono risultate fallimentari come l’“Ires premiale”, che non è stata rinnovata né sostituita, e Transizione 5.0 che ha avuto una gestione disastrosa: il Mimit è riuscito a far diventare scarsi soldi che fino a poco prima erano in eccesso di quasi 4 miliardi. Così ora la misura verrà sostituita dallo strumento che avrebbe dovuto sostituire, l’iper-ammortamento: ma siccome molte imprese sono rimaste incastrate nel mezzo, nel 2026 ci saranno fondi per entrambi gli incentivi. Burocrazia e incertezza, esattamente ciò che frena gli investimenti.
Questa indecisione tra il vecchio e il nuovo è trasversale alle politiche industriali del governo, con il risultato che non è riuscito né a salvare la vecchia industria né ad attirare la nuova. L’automotive è un altro caso emblematico. L’obiettivo indicato dal governo era produrre “un milione di auto”: nei primi nove mesi del 2025, secondo i dati Fim-Cisl, sono stati prodotti 265 mila veicoli con un crollo del 31,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024. Naturalmente molto dipende dalla crisi europea e dalle decisioni di Stellantis, unico produttore italiano. Ma anche qui non si è ben capita la strategia dello “Stato stratega”.
Inizialmente Urso ha puntato tutto su Stellantis, poi è entrato in conflitto e annunciato l’arrivo di nuovi produttori. Non una, ma tre case cinesi sgomitavano per investire in Italia: Byd, Dongfeng, Chery... ma si sono volatilizzati, esattamente come gli azeri di Baku Steel dall’Ilva di Taranto, quando hanno capito che il governo voleva rifilargli vecchi stabilimenti come Termini Imerese o Flumeri. Peraltro, mentre cercava di attirare produttori cinesi di auto elettriche, il governo contemporaneamente in Europa si batteva per rinviare lo stop ai motori endotermici e votava l’aumento dei dazi sulle auto cinesi.
La vecchia industria novecentesca, siderurgia e automotive, è in declino irreversibile, ma la nuova industria del XXI secolo fatica a vedersi: l’investimento di Intel sui microchip è saltato per problemi dell’azienda, così come la Gigafactory di Termoli (il Mimit l’ha confermato nei giorni scorsi). Ma anche l’investimento da 3,2 miliardi di Silicon Box a Novara per produrre chip, che pareva certo, si è arenato. Per il Made in Italy non c’è una “strategia”, ma una strage.
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