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L'analisi

Bolla, non bolla, quasi bolla: la situa sull'AI

Davide Mattone

Per alcuni è già bolla, per altri un boom ancora in salita: tra Nvidia, Fed e cripto in caduta, l’AI è un vero e proprio stress test per i gestori dei fondi, per le banche centrali e per i mercati

Da due anni l’intelligenza artificiale è il motore della corsa azionaria, del the bull, e Nvidia ovviamente è il leader indiscusso del settore. Ricavi record e una valutazione arrivata a fine ottobre a toccare i 5 trilioni di dollari, prima di perdere in poche sedute centinaia di miliardi di capitalizzazione. Una singola azienda di chip vale oggi più dell’intero mercato delle criptovalute e pesa da sola una quota inedita degli indici azionari globali, come l'S&P 500.

Su questo sfondo, la discussione non è più se l’AI sia un tema strutturale – lo è – ma se il modo in cui viene prezzata sui mercati somigli sempre di più a una bolla. Il the bull che ha portato Nvidia a 5 trilioni è lo stesso che ha reso l’indice S&P 500 sempre più concentrato su pochi titoli relativi all'AI o high tech, mentre la maggior parte del resto del listino ha seguito una crescita più moderata. Il punto di rottura temporaneo è arrivato con l’ultima trimestrale di Nvidia: numeri solidi, ma incapaci di sostenere il prezzo. Il titolo ha oscillato fino a circa più 5 per cento durante la giornata per poi chiudere la seduta in calo di oltre 3 per cento, innescando una delle più forti ondata di volatilità da mesi sull’intero comparto tecnologico Usa. 

Dunque, il dubbio legittimo: se neanche un’azienda che cresce a queste velocità riesce più a battere le aspettative, quanto è sottile la linea fra ricavi reali e bolla?

Chi vede una bolla

Della squadra del “sì, è bolla” il riferimento è la Bank of America. Nell’ultima Global Fund Manager Survey il 45 per cento dei gestori indica la bolla AI come principale rischio per i mercati nel 2026, davanti a inflazione e geopolitica. Più della metà del campione – il 53 per cento – ritiene che i titoli legati all’AI siano già in bolla, mentre la posizione delle magnificent seven (Apple, Microsoft, Nvidia, Amazon, Alphabet, Meta, e Tesla) viene considerata una scommessa molto rischiosa.

Lo stesso sondaggio sottolinea un altro aspetto: per la prima volta da vent’anni i gestori parlano di “over-investment”, e lo fanno proprio a proposito dell’AI. Significa che il timore non è solo per i prezzi in Borsa, ma per la quantità di capitale immobilizzata in data center, chip e infrastrutture che potrebbero impiegare anni a generare ritorni adeguati.

A livello istituzionale, sia il Fondo monetario internazionale che la Bank of England hanno evidenziato il rischio che il boom AI si traduca in una correzione improvvisa dei listini: parlano di valutazioni “tirate” e di paralleli sempre più espliciti con la bolla del dot-com.

"No, non è una bolla, è un boom economico"

Dall’altro lato c’è il fronte di chi parla invece di boom, non di bolla. Il rapporto del chief investment office di Ubs, intitolato “Are we facing an AI bubble?”, parte proprio dal paragone con il 2000: allora i "campioni" della new economy trattavano in media a circa 82 volte gli utili attesi, mentre oggi il multiplo medio dei grandi titoli tech Usa – le stesse Magnificent Seven – è intorno a 28 volte, con una crescita degli utili molto più robusta. Per Ubs, allo stato attuale “c’è poco che faccia pensare a una bolla”, anche perché la Federal Reserve è nella fase iniziale di un ciclo di tagli, mentre alla vigilia dello scoppio delle dot-com stava alzando i tassi.

Su una linea simile si colloca Goldman Sachs. Secondo una nota di ricerca, “The AI Spending Boom Is Not Too Big”, citata da Fortune e altri media finanziari, i livelli di investimento in IA sono “sostenibili” e valgono meno dell’1 per cento del pil Usa, contro il 2–5 per cento dei grandi cicli tecnologici del passato. Nella loro lettura, i livelli di capex sono “sostenibili” e giustificati da un potenziale di produttività con un valore attualizzato di circa 8 trilioni di dollari – con uno scenario alto che arriva a 19 trilioni.

La banca J.P. Morgan è più ambivalente: da un lato calcola che una trentina di titoli legati all’AI abbiano generato nell’ultimo anno un aumento di ricchezza delle famiglie americane di circa 5 trilioni di dollari e che questi titoli valgano ormai intorno al 44 per cento della capitalizzazione dell’S&P 500, segnale di una trasformazione reale dei bilanci e dei consumi.

C'è poi la stessa Fed. Il presidente Jerome Powell ha insistito più volte sul fatto che il boom AI “non assomiglia alla bolla dot-com” perché i protagonisti di oggi “hanno utili, modelli di business e margini reali” e perché la spinta all’investimento arriva da aspettative di lungo periodo sulla produttività. È un modo per dire che la correzione sui listini è possibile – e infatti la stiamo vedendo – ma il fenomeno, nella lettura della banca centrale, è più vicino a un grande ciclo infrastrutturale che a una mania puramente speculativa.

Le grandi banche e fondi, da Ubs a BlackRock a Goldman, continuano a parlare di boom, non di bolla. Forse si parla troppo poco di un'altra bolla: quella delle cripto. 

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