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Il Dato e il Colloquio
Per Bankitalia lavorare da casa non fa danni. Parla Del Conte
Uno studio di Palazzo Koch mostra che il lavoro da remoto non cambia la produttività media delle imprese. Invece, porta a ripensare l'organizzazione delle imprese e dei luoghi di lavoro, ed è una leva per attrarre talenti, spiega il professore della Bocconi
Secondo uno studio della Banca d’Italia, tra il 2019 e il 2023 il lavoro da remoto non ha avuto effetti statisticamente rilevanti sulla produttività media delle imprese, né misurata in ricavi per addetto né in quantità prodotte per ora lavorata. Il nuovo working paper di BdI, firmato da Gaetano Basso, Davide Dottori e Sara Formai, analizza i dati di oltre 1.500 imprese incrociando il sondaggio Invind con bilanci aziendali e dati Inps. Il risultato medio è che, per le imprese, il teleworking non fa né bene né male (nei numeri). Nessun impatto significativo nemmeno sull’occupazione complessiva, non emergono effetti netti sui salari, sui costi variabili o sugli investimenti digitali.
Ma è una notizia negativa perché la produttività non è aumentata come molti auspicavano? “Se un cambiamento così radicale non ha travolto le imprese, è sicuramente una buona notizia”, risponde al Foglio Maurizio Del Conte, professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università Bocconi. “Con la pandemia il lavoro da casa è stato imposto da un evento esogeno, non preventivato, che ha colpito trasversalmente tutte le aziende italiane, anche quelle piccole”. Prima del Covid, lavorare da casa era un fenomeno marginale, con appena il 9,8 per cento delle imprese che lo usava e in media l’1,2 per cento dei dipendenti a casa in un qualsiasi giorno, dice Bankitalia. “La legge sul lavoro agile è del 2017, quindi in tempi non sospetti. Nonostante ciò, la remotizzazione era lontana dall’orizzonte mentale dell’imprenditore”, commenta Del Conte. “Il Covid ha dato un’accelerazione e uno scossone alle strutture organizzative, tanto che ora sta cambiando il modo stesso di organizzare l’impresa”.
Con la pandemia nel 2020 il lavoro da remoto è esploso, coinvolgendo il 58,6 per cento delle imprese. La pandemia ha funzionato come uno “stress test”, facendo abbassare le barriere all’adozione. Negli anni successivi il fenomeno si è ridimensionato, ma nel 2023 riguardava ancora il 28 per cento delle aziende. “La vera novità è che uno dei paradigmi del lavoro, cioè il luogo fisico, può essere rimodulato”, commenta il professore. “L’impresa moderna era costruita attorno a uno spazio fisico, fabbrica o ufficio, e all’organizzazione che l’imprenditore determinava in quel luogo. Nessuno pensava a un rapporto di lavoro svincolato da esso”.
Oltre a sottolineare la neutralità del fenomeno rispetto alla produttività, lo studio evidenzia che il lavoro da remoto è concentrato nei servizi avanzati, nell’informatica, nelle attività ad alto contenuto digitale, e che si è registrato più teleworking al nord e molto meno al sud. Ma, rispetto alla produttività, il paper mette in luce due eccezioni. La prima è che le aziende già attrezzate sul fronte digitale (automazione, cloud, ecc.) e meno ostili ideologicamente al lavoro da remoto hanno registrato piccoli guadagni di produttività e hanno deciso di mantenere il lavoro da casa. La seconda è che quelle più resistenti al cambiamento, con più frizioni organizzative e meno investimenti tecnologici, hanno sperimentato effetti negativi e sono tornate a schemi più tradizionali. “Il teleworking non può essere la fotocopia del lavoro in ufficio riportato a casa. Il lavoro agile è un modo di riallocare il lavoro lungo tutta la filiera delle professionalità”, sottolinea Del Conte. “Gli studi, anche quelli più settoriali, mostrano che dove l’impresa si è strutturata per gestire la remotizzazione, con una revisione delle mansioni e delle modalità di coordinamento, la produttività che intrinsecamente si perde può essere recuperata e in alcuni casi migliorata. Se tengo le persone lontane, devo costruire un modo diverso per coordinarle. Esiste una vera professionalità manageriale da mettere in campo”.
Ma se il lavoro da remoto non porta, in media, grandi vantaggi di produttività, perché adottarlo? “Perché è un fattore di attrazione in fase di reclutamento e poi di fidelizzazione. La possibilità non è necessariamente un obbligo, ma una leva in più, che può essere modulata nel tempo e adattata alle diverse coorti generazionali. Per esempio a chi ha figli, per cui la flessibilità è cruciale, ma anche ai lavoratori più anziani che diventano caregiver dei genitori. Nei corsi di management si parla sempre di più di total reward, un insieme di leve che vanno dalla retribuzione al welfare, dalla crescita professionale al benessere aziendale”, conclude l’esperto. “Il lavoro da remoto rientra a pieno titolo in questo paniere di strumenti per motivare e trattenere le persone”.