Ansa

Scosse salutari

Dalle imprese alla Lega fino a pezzi di Pd. Indizi (ma non prove) su un timido ritorno del Nord in politica

Dario Di Vico

Le parole di Paola Carron, la presidente di Confindustria Veneto est, e del capogruppo del Carroccio al Senato Romeo dimostrano che è in corso una transizione dell’economia industriale settentrionale. E per accompagnarla servono una politica dello sviluppo e decisioni rapide

Secondo il noto schema due indizi non fanno una prova. Ma qualcosa contano per individuare una tendenza. Nelle stesse ore infatti Paola Carron, la presidente di Confindustria Veneto est, la seconda territoriale d’Italia, dal palco dell’assemblea annuale degli iscritti (più di cinquemila aziende) ha rilanciato con forza la questione settentrionale e da Milano intanto sia il Corriere della Sera sia il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo sostenevano l’urgenza di una legge speciale per la città di Ambrogio. Due indizi che vengono da posizioni che nelle due organizzazioni (Confindustria e Lega) oggi sono minoritarie ma che in qualche modo danno una spinta al dibattito sulla “Finanziaria senza crescita”.

 

Se volessimo completare il quadro potremmo rintracciare anche nel Pd e nel gruppetto attorno all’eurodeputato Giorgio Gori una terza posizione di minoranza che rientra nella tendenza di cui sopra. Ma, numeri a parte, ci sono le condizioni per un rilancio del nordismo sia nelle comunità citate sia più in generale nel dibattito pubblico. La risposta è sì, a patto però di mettere da parte la nostalgia e fare i conti con le trasformazioni che dal primo al secondo (ipotetico) nordismo hanno segnato la questione settentrionale. E che potremmo sintetizzare così: dalla fiscalità alla politica industriale. Non è un caso che Carron, che pure parlava a pochi giorni dalle elezioni regionali venete, abbia chiamato alla collaborazione Piemonte, Lombardia, Emilia in nome di quella regione A4 che mette a nudo i limiti di contenitori politici elefantiaci come sono le attuali regioni. E’ in corso una transizione dell’economia industriale settentrionale e questa va accompagnata con una politica dello sviluppo e decisioni rapide.

 

Quanto alle novità potremmo partire dalla diminuzione del peso della Germania nei destini del nord, i nostri sistemi di fornitura non possono dipendere dai tempi della crisi tedesca e devono trovare sicuramente nuove strategie e sbocchi. I distretti non sono più quelli che gonfiavano le statistiche dell’export, come documentato per anni dal prezioso monitor Intesa Sanpaolo, ma al loro interno ci sono i segni di una selezione darwiniana. Diversa da quella del 2008 che, per esempio, appiedò le lavorazioni a basso valore aggiunto come le sedie di Manzano ma comunque altrettanto insidiosa perché colpisce zone (vedi Scandicci nella pelletteria) che avevano accumulato un ampio vantaggio competitivo. Ne sapremo di più quando conosceremo con maggiore nettezza gli effetti dei dazi sulle nostre esportazioni però è certo che oggi alcune zone di produzione diffusa – prendiamo quelle del vino – paiono oggettivamente in difficoltà per mantenere i loro presìdi.

 

Anche sul piano degli investimenti ci sono discontinuità che vanno registrate. I data center e la logistica sono i business che catalizzano più impegni di spesa e li trattiamo ancora con una certa sufficienza. Il nord deve fare i conti, ad esempio, con il fatto che Amazon è diventato il Grande Fratello di tantissime Pmi che si sono viste spalancare mercati che nemmeno conoscevano. Nel contempo non bisognerà replicare a nord il flop di Transizione 5.0: il nuovo strumento che sarà varato dalla manovra di Bilancio centrato sull’iper ammortamento dovrà ripescare il ruolo-guida che le imprese organizzate attorno all’Ucimu (e dislocate per lo più tra Lombardia, Emilia e Veneto) ebbero con Industria 4.0. L’unica legge di politica industriale che abbia funzionato davvero (mentre il governo Meloni ha varato un provvedimento insulso come quello sul made in Italy).

 

Le multinazionali sono sicuramente presenti in Italia ma nonostante le litanie sulla nazione svenduta non sono così decisive nel paesaggio del nostro capitalismo. Siamo, come dimostra la recente pubblicazione di Mediobanca, un capitalismo pubblico-energetico che vede la presenza di sempre meno grandi imprese italiane e tanto tanto stato. Bisognerà dunque riprendere ad attrarre multinazionali come si voleva fare con Intel e come avevamo sbandierato fosse successo con la Silicon Box di Singapore. Peccato che di quest’ultimo investimento oggi si sappia poco o niente e non sembra ci siano alla vista altri “acchiappi”. Eppure quando un grande gruppo straniero investe sulla manifattura italiana anche solo destinando produzioni (di qualità) il risultato è lampante. Si pensi alla casa farmaceutica americana Eli Lilly che ha deciso di produrre in Toscana un farmaco contro l’obesità e come questo sia stato subito misurabile in occupazione e crescita del territorio. E a proposito delle caratteristiche del nostro capitalismo è evidente che una rinnovata questione settentrionale deve porsi il tema dell’allargamento della dimensione media di impresa, tema non rinviabile anche per gli effetti che può avere sull’assorbimento di capitale umano pregiato.

 

Un’ultima considerazione che chiameremmo post nostalgica è quella che riguarda i rapporti tra manifattura e innovazione. Mappiamo i distretti ma non diamo sufficiente attenzione ai parchi scientifici, le startup, le collaborazioni università-impresa. C’è stato un tempo in cui un gruppo di economisti industriali sosteneva la creazione in Italia dei Fraunhofer tedeschi destinati al trasferimento tecnologico. Qualcosa si è fatto sempre nell’ambito di Industria 4.0 ma non a sufficienza. Prevale in qualche caso l’idea (illusoria) di creare poli di innovazione per ogni campanile, ripetendo per l’appunto lo schema dei distretti. Ma non è così: si può pensare che il chilometro rosso sia solo “di Bergamo”? Carron e Romeo, lo ripeto, sono degli indizi ma vanno valorizzati e non dispersi. Il nord deve riprendere la sua corsa perché si produca crescita e Milano deve comunque progettare più unicorni che grattacieli.

Di più su questi argomenti: