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Proprietà e custodia

Caccia all'oro italiano

Luciano Capone

Fratelli d'Italia va contro la Banca d’Italia sulla proprietà dei lingotti con l'emendamento di Malan, che però è destinato a nafraugare. Il vero problema delle riserve d'oro non è di chi sono (di Palazzo Koch), ma dove sono: negli Stati Uniti di Trump

Di chi è l’oro italiano, della Banca d’Italia o del governo? E’ una questione di cui si discute da tempo, che soprattutto a destra riemerge ciclicamente. Ora FdI, il partito della premier Giorgia Meloni, vuole risolvere la questione con un emendamento alla legge di Bilancio del capogruppo al Senato Lucio Malan: “Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo stato, in nome del popolo italiano”. In passato, all’epoca del governo gialloverde, ci avevano già pensato Lega e M5s a sollevare la questione con proposte di legge che alimentavano tensioni e retropensieri sulla volontà di uscire dall’euro.

Ora non c’è questo tema sul tavolo e il sospetto è che l’emendamento di FdI sia una sorta di avvertimento alla Banca d’Italia dopo l’audizione sulla legge di Bilancio, largamente incompresa, che è stata percepita come critica nei confronti del governo. Ma se pure l’emendamento dovesse passare non cambierebbe la sostanza: le riserve auree sono della Banca d’Italia, e quindi del popolo italiano (essendo la Banca centrale italiana un organismo di diritto pubblico). La normativa nazionale e soprattutto quella europea sono chiare. 

Lo stato italiano può anche cambiare le leggi, ma poi interverrebbero i Trattati europei a bloccare iniziative improvvise. In un parere di qualche anno fa, l’allora presidente della Bce Mario Draghi spiegò che il trasferimento dell’oro dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a quello dello stato italiano sarebbe stato un finanziamento al settore pubblico, e quindi una violazione dei trattati europei. In pratica, le riserve devono essere detenute, gestite e iscritte nel bilancio della Banca d’Italia e “nel nostro ordinamento – spiegò nel 2019 l’allora governatore Ignazio Visco – tale assetto si realizza con il diritto di proprietà”.

Un cambio di proprietà aprirebbe un enorme contenzioso nazionale ed europeo. Secondo l’art. 42 della Costituzione l’esproprio obbliga lo stato a versare un indennizzo: non si comprende, quindi, l’utilità di emettere debito pubblico per comprare oro, producendo enormi shock sui prezzi in entrambi i mercati. Ma secondo i Trattati, gli stati hanno trasferito all’Ue in maniera esclusiva le competenze monetarie e quindi sulla detenzione e gestione delle riserve auree. Peraltro lo statuto della Bce e del Sistema europeo di banche centrali vieta l’ingerenza dei parlamenti e dei governi nazionali sulle questioni monetarie e valutarie. A che scopo, quindi, aprire un fronte del genere? Non è chiaro.

In passato diversi governi avevano pensato di mettere le mani sull’oro di Bankitalia. Nel 2007 il governo Prodi tentò di vendere una parte delle riserve auree per ridurre il debito pubblico, ma fu fermato – oltre che dalle proteste del centrodestra – dallo stop della Bce, che avvertì il governo italiano che comunque il ricavato della vendita sarebbe dovuto rimanere alla Banca d’Italia e al Sistema europeo di banche centrali. Nel 2009, governo Berlusconi, il ministro Giulio Tremonti provò a mettere una tassa sulle plusvalenze dell’oro di Bankitalia ma si dovette arrendere al niet della Bce. L’emendamento Malan, presentato in maniera estemporanea e senza peraltro alcuna ragione di politica economica, è quindi destinato a naufragare.

C’è però, sempre sull’oro, una questione che forse meriterebbe maggiore attenzione e che peraltro faceva parte delle proposte della Meloni d’opposizione: il rimpatrio dell’oro custodito all’estero. La Banca d’Italia è con 2.452 tonnellate il quarto detentore al mondo di riserve auree dopo la Federal reserve americana, la Bundesbank tedesca e l’Fmi. E, come è noto, la maggior parte dei lingotti è custodita all’estero: solo il 45 per cento (1.100 tonnellate) è nei caveau di Via Nazionale, circa il 12 per cento in Regno Unito e Svizzera (rispettivamente 141,2 e 149,3 tonnellate), mentre il 43 per cento è negli Stati Uniti (1.061,5 tonnellate). Ci sono varie ragioni storiche per questa scelta: la convertibilità tra oro e dollaro previsto dagli accordi di Bretton Woods, il fatto che New York e Londra siano le principali piazze finanziarie dove l’oro veniva scambiato e, soprattutto, il rischio geopolitico durante la Guerra fredda. Conservare le riserve auree a Fort Knox, per i paesi che erano sotto l’ombrello della Nato, era un’ulteriore garanzia rispetto a una possibile invasione dell’Unione sovietica.

Le cose, però, ultimamente stanno cambiando. Molti paesi europei hanno avviato nel decennio scorso politiche di rimpatrio delle riserve auree: la Bundesbank ha avviato un piano che tra il 2013 e il 2017 ha fatto rientrare in Germania 674 tonnellate d’oro (300 dalla Francia e 374 dagli Stati Uniti) con l’obiettivo di superare il 50 per cento di oro custodito in patria. La Nederlandsche Bank ha adottato una politica analoga per i Paesi Bassi, e così le banche centrali di Belgio e Austria. Il fenomeno ha subìto un’accelerazione negli ultimi anni dopo l’esplosione di tensioni geopolitiche e l’utilizzo di sanzioni finanziarie, tra cui il congelamento delle riserve auree. I rischi geopolitici sono cambiati e gli Stati Uniti, soprattutto con Trump, sono un partner meno amichevole rispetto ai tempi della Guerra fredda. Certo, spostare centinaia di tonnellate d’oro è complesso e costoso, probabilmente implicherebbe qualche discussione con Washington, ma è la vera riflessione da fare sulle riserve. Come ha recentemente suggerito Romano Prodi sul Messaggero, in un mondo che si divide in blocchi e in cui l’oro acquisisce un ruolo sempre più cruciale, il rimpatrio sarebbe una forte decisione economica e simbolica soprattutto se presa a livello europeo. In ogni caso è una decisione che, per il nostro paese, formalmente spetta al proprietario: la Banca d’Italia.

 

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali