La decisione
La sentenza della Corte Ue sul salario minimo e i trattati da ripensare
La Corte salva la direttiva sul salario minimo ma la svuota dei suoi elementi più incisivi. Una sentenza che spinge il diritto sociale europeo al limite della sua base giuridica, lasciando irrisolta la contraddizione tra integrazione del mercato e sovranità salariale nazionale.
La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue (Cgue) sulla direttiva sui salari minimi adeguati (Caso C-19/23) è un momento di svolta non solo giuridico, ma soprattutto di politica del diritto europeo sociale. Rigettando la richiesta di annullamento totale avanzata dalla Danimarca e discostandosi dalle conclusioni radicali dell’Avvocato generale (Ag), la Corte ha scelto una via pragmatica: un annullamento parziale. Questa decisione, pur salvando l’impalcatura della direttiva, rivela un’interpretazione forse troppo pragmatica che non coglie appieno la coerenza giuridica del ragionamento dell’Ag.
Il punto della disputa risiede nell’interpretazione dell’art. 153(5) del Tfue che esclude esplicitamente la “retribuzione” dalle competenze legislative dell’Ue. L’Ag aveva adottato una posizione forse discutibile, ma aderente al dato letterale del Trattato: l’esclusione della “retribuzione” deve essere intesa in senso ampio. Non riguarda solo il “livello” (l’importo) dei salari, ma anche tutte le procedure e i criteri per la loro determinazione. Secondo l’Ag, qualsiasi norma che abbia come oggetto specifico la regolamentazione della retribuzione costituisce un’interferenza diretta e, pertanto, vietata. Per l’Ag la direttiva era, nella sua interezza, un tentativo di regolare ciò che i Trattati vietano di regolare.
La Corte ha scelto un’altra strada, molto più sofisticata e, inevitabilmente, più politica. Per la Cgue, il divieto si limita a misure che armonizzano i livelli salariali o che fissano un salario minimo a livello Ue. Ha creato così uno spazio giuridico in cui il legislatore Ue può adottare misure (nel campo delle “condizioni di lavoro”) che producono “effetti positivi” o “ripercussioni” sui salari, purché non interferiscano direttamente nella loro determinazione. E’ qui che la Corte sembra perdere alcune interessanti sfumature dell’Ag. L’Ag aveva avvertito che l’esclusione della retribuzione non serve solo a proteggere l’autonomia delle parti sociali, ma anche a preservare la politica salariale come strumento di politica economica nazionale e di concorrenza. La Cgue, focalizzandosi solo sul “livello” salariale, ignora di fatto questa seconda (e cruciale) dimensione della competenza nazionale. La debolezza dell’approccio della Corte emerge da alcune contraddizioni. La Cgue ha annullato l’art. 5(2) che obbligava gli stati a includere almeno quattro criteri specifici (potere d’acquisto, produttività, ecc.) per definire l’adeguatezza. La Corte ha ritenuto che questo fosse un’interferenza diretta, poiché armonizzava gli “elementi costitutivi” dei salari. Ha annullato anche la “clausola di non regresso” sull’indicizzazione automatica (art. 5(3)) per la stessa ragione. Allo stesso tempo, però, ha salvato l’art. 5(1) (obbligo di istituire procedure per l’adeguatezza), l’art. 5(4) (l’uso di valori di riferimento indicativi come il 60 per cento del salario mediano) e l’art. 5(6) (istituzione di organi consultivi). La distinzione appare fragile. Perché obbligare a usare “valori di riferimento indicativi” non è un’interferenza, mentre obbligare a usare “criteri specifici” lo è? L’Ag forse aveva una visione più coerente: entrambe sono interferenze perché l’oggetto è lo stesso. La Cgue ha tracciato una linea sottile, salvando gli obblighi “procedurali” e “di mezzi” (come l’art. 4 sulla contrattazione collettiva) e cassando solo quelli palesemente prescrittivi.
Questa sentenza spinge l’integrazione sociale fino all’estremo limite consentito dai Trattati, e forse anche un passo oltre, costringendoci a una riflessione sul futuro. L’Europa sociale, oggi, si basa su un compromesso giuridico fragile. Stiamo cercando di costruire un pilastro sociale su fondamenta (i Trattati) che escludono esplicitamente uno dei suoi elementi portanti: la retribuzione. La sentenza della Cgue crea uno spazio per salvare il salvabile. Tenta di conciliare l’inconciliabile: la volontà politica di garantire salari adeguati e la lettera dei Trattati che affida la materia agli stati. Ma non risolve la contraddizione di fondo: non può esserci un mercato europeo veramente unico, con un’effettiva libertà di circolazione delle persone e delle professionalità, se persiste un dumping sociale basato sulla competenza esclusiva nazionale in materia salariale. Finché l’art. 153(5) escluderà la retribuzione in termini così netti, l’UE non potrà mai garantire condizioni di lavoro e di vita eque per i cittadini che si spostano per lavoro.
La vera domanda che questa sentenza ci pone non è se la Corte abbia interpretato correttamente la complessa vicenda giuridica, ma se i Trattati siano ancora adeguati oggi, date le condizioni diverse storiche e economiche che stiamo affrontando.