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la situazione

I tabù che la politica non vuole affrontare quando parla di contratti collettivi

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

A causa dei mancati rinnovi dei venti contratti principali del settore privato nel 2022 e nel 2023, i salari reali lordi dei lavoratori italiani sono l'8 per cento più bassi del 2019 in termini reali. Nessun gran paese europeo ha visto una simile caduta. La soluzione è semplice da dire ma difficile da attuare: impedire i ritardi

Ogni tre anni i rappresentanti dei sindacati e delle imprese dovrebbero sedersi a un tavolo per rinnovare i contratti collettivi nazionali, ciascuno nel suo settore, in base alla scadenza del contratto. La regola, stabilita dopo la fine della scala mobile, prevede che gli aumenti salariali si basino sull’indice dei prezzi al netto dei costi energetici, pubblicato dall’Istat ogni primo giugno. L’indice dei prezzi futuro, quello previsto per l’anno prossimo e non quello dell’anno passato, altrimenti si alimenta la rincorsa tra prezzi e salari. Un sistema equilibrato, che tutela il potere d’acquisto senza aumentare l’inflazione. Ma che funziona solo se i rinnovi avvengono puntualmente.

 

Negli ultimi anni, con il ritorno improvviso dell’inflazione, il meccanismo si è inceppato. Quando nel 2022 e nel 2023, l’indice dei prezzi futuri su cui si deve basare la firma dei contratti superava rispettivamente il 4,5 e il 6,5 per cento quasi nessun contratto è stato firmato. Sembra una scelta “razionale”: quale impresa vorrebbe firmare un contratto quando l’indice dei prezzi è alto? Ma se i rinnovi vengono rinviati proprio nei momenti di inflazione il sistema salta. I lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi hanno perso in quegli anni più del 10 per cento del potere d’acquisto. Se i contratti fossero stati rinnovati per tempo, il recupero sarebbe stato più rapido e meno doloroso.

Sui venti contratti principali del settore privato, solo due – chimici e legno/arredamento – sono stati rinnovati nel 2022, nessuno nel 2023. Tutti gli altri sono arrivati molto più tardi, nel 2024 o nel 2025, quando l’inflazione prevista era ormai tornata sotto il 2 per cento. Ben nove contratti su venti hanno accumulato più di un anno di ritardo, ben quattro contratti hanno fatto più di quattro anni di ritardo. Il risultato è stato un evidente risparmio per le imprese e una perdita secca per i lavoratori. Perché sarà pur vero che, quando alla fine rinnovi il contratto è previsto un pagamento una tantum per gli arretrati, ma questo non basta lontanamente a recuperare il terreno perduto. Il risultato è che oggi i salari reali lordi dei lavoratori italiani sono l’8 per cento più bassi del 2019 in termini reali. E soprattutto non c’è in vista alcun recupero rapido. La matematica ci dice che potrebbe avvenire solo se ci fossero zero ritardi e aumenti ben superiori all’indice dei prezzi. Alle regole di oggi, è impossibile. Tra l’altro quell’indice, al netto dei costi energetici, già sottostima l’inflazione effettiva di questi anni.

 

Una caduta dell’8 per cento non si è vista in nessun altro grande paese europeo. Tutti hanno tutti recuperato i valori del 2019. In Germania, i generosi aumenti nel pubblico impiego hanno compensato le perdite. In Francia, il salario minimo ha trascinato verso l’alto tutti i contratti. In Spagna, le clausole di salvaguardia che permettono di mantenerne gli effetti anche a contratto scaduto, una caratteristica che da noi ha solo il contratto dei metalmeccanici, hanno impedito che i salari restassero fermi. L’Italia è rimasta il solo paese con retribuzioni reali più basse e una ripresa lentissima. La conseguenza è una perdita di potere d’acquisto che rischia di pesare a lungo non solo sui lavoratori, ma sui consumi e quindi sull’intera economia.

E adesso? Per il futuro, la soluzione è semplice da dire ma difficile da attuare: impedire i ritardi. Oltre i dodici mesi di vacanza contrattuale, il contratto dovrebbe essere automaticamente aggiornato all’indice dei prezzi previsto per l’anno successivo – non a quello passato – per evitare che il meccanismo venga eluso.

Il recupero del passato, invece, è tutta un’altra storia. Servirebbero aumenti superiori all’inflazione, cosa che difficilmente accadrà. Servirebbe più contrattazione decentrata, ma questa non riguarda la grandissima parte delle pmi. Per questo tornerà la pressione per ridurre ulteriormente il cuneo fiscale, misura già ampiamente utilizzata ma non risolutiva, anzi deleteria nel caso della detassazione degli aumenti contrattuali; per introdurre un salario minimo legale che spinga in alto i contratti più bassi; o per mettere in busta paga il Tfr, con costi rilevanti per la finanza pubblica.

Del resto, neppure il settore pubblico può dirsi virtuoso, anzi è il peggiore di tutti, ma lì la contrattazione è condizionata alla disponibilità finanziaria del governo. I rinnovi sono stati sempre in ritardo, e adesso, nel 2025, seppur tempestivi, non hanno colmato la distanza con l’inflazione. Nel pubblico la soluzione è banalmente spendere di più per gli aumenti stipendiali, ma questo non risolve il grosso guaio in cui si è cacciata la contrattazione nel settore privato.

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