Ansa
L'intervento
Una manovra che chiede senza dare, dicono le imprese
Per gli industriali la legge di bilancio si limita a misure frammentate, insufficienti, spesso mal congegnate. L’esempio più evidente è l’iper-ammortamento che avrebbe dovuto rilanciare gli investimenti. Che cosa non va in tema di fisco e innovazione
Man mano che emergono i dettagli e soprattutto i testi della legge di Bilancio 2026 approvata dal governo, lo sconcerto del tessuto manifatturiero va crescendo. Non perché le imprese si aspettassero miracoli, ma perché da un esecutivo stabile e con un orizzonte politico largo ci si poteva attendere una scelta diversa: quella di investire davvero nel motore economico del paese. Invece, ancora una volta, quel motore viene trattato come una fonte di risorse più che come un generatore di crescita.
I numeri usciti dal Consiglio dei ministri parlano chiaro. Alle imprese vengono destinati 3,4 miliardi nel 2026 e 9,4 nel triennio, ma sono proprio le imprese a coprire buona parte dell’intera manovra, contribuendo con 4,6 miliardi nel solo 2026 e oltre 12,7 nel triennio. Pagano più di quanto ricevono. E’ un messaggio pesante: non è un capitolo industriale, è un bilancio che “guarda altrove”. Eppure, la strada era stata indicata con chiarezza da Confindustria: un Piano industriale straordinario, 8 miliardi l’anno per tre anni, una scelta strategica, non un capriccio. La manovra, invece, si limita a misure frammentate, insufficienti, spesso mal congegnate.
L’esempio più evidente è l’iper-ammortamento che avrebbe dovuto rilanciare gli investimenti. Si rivela invece un incentivo con una finestra di pochi mesi, risorse minime e un impianto burocratico che affida al Gse un ruolo che rischia di inceppare tutto: un paradosso per una misura nata per accelerare l’innovazione. Ancora più incomprensibile non aver mai preso in considerazione il credito d’imposta, lo strumento che negli anni ha garantito semplicità e immediatezza. Anche sui contratti di sviluppo la risposta è debole: 385 milioni in tre anni, quando ne servirebbero almeno tre volte tanto. La Zes unica viene prorogata al 2028, scelta positiva ma parziale. Sul Fondo di garanzia, poi, cade un silenzio assordante: non si prorogano regole che scadono a fine anno, lasciando nel limbo uno strumento a costo zero ma decisivo per l’accesso al credito di migliaia di Pmi. Non va meglio sul fronte fiscale. La revisione dei dividendi aumenta il prelievo su chi investe nelle imprese; il divieto di compensare i crediti fiscali sottrae liquidità; la pressione complessiva non scende. Le imprese, ancora una volta, diventano un “bancomat”.
Sul capitolo innovazione la scelta appare persino più grave: viene ridotto drasticamente il credito d’imposta R&S, nasce un Fondo che coinvolge solo enti pubblici e taglia fuori le imprese dalla ricerca industriale. E’ un passo indietro culturale, prima ancora che economico. Dov’è, allora, la strategia industriale? Non c’è. Manca un disegno, manca una direzione. Il paese continua a rinviare plastic tax e sugar tax senza cancellarle, a perdere strumenti efficaci come l’Ace senza prevedere strumenti alternativi, nemmeno il minimo indispensabile vista la mancata estensione, semplificazione e proroga dell’Ires premiale.
Che il debito richieda prudenza è evidente, soprattutto con 80-85 miliardi di interessi annui. Ma con oltre 1.100 miliardi di spesa pubblica è davvero impossibile rimodulare meglio le priorità? E’ questo l’interrogativo che il mondo produttivo pone alla politica. E che la politica, prima o poi, dovrà affrontare.
Barbara Beltrame Giacomello, presidente Confindustria Vicenza
Bastian contrario