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viaggio tra manovra e fisco

Un labirinto di tasse, supertasse e gabelle occulte

Stefano Cingolani

Siamo il terzo peggior paese europeo per peso fiscale. Patrimoniali con nomi fantasiosi, accise immortali. Evasione alle stelle e rottamazioni. E con questa Finanziaria si resta immobili. Vademecum contro le batoste

Una finanziaria vuota, altro che prudenza, siamo all’immobilismo. Sono 154 articoli (ne sono stati aggiunti 17 in extremis), un po’ troppi perché non ci sia davvero niente, eppure la critica  più diffusa alla manovra di bilancio per il prossimo anno, è proprio questa: impatto zero sull’economia, si va avanti con il pilota automatico. Nessuno piangerà calde lacrime, non siamo più ai tempi dell’austerità, è una legge di attesa, e nel mare dell’incertezza, meglio fare il morto che annaspare, ma davvero tutti quegli articoli sono pieni di nulla? O contengono invece qualcosina per tutti (o quasi), un bonus qua (quello sull’edilizia scende al 50 per cento, non ce ne libereremo mai del tutto), un aiutino là (anche per comprare le demonizzate auto elettriche ), cedolare secca per i B&B, una tirata d’orecchi ai “bankster”, un incentivo agli industriali, una scappatoia per gli autonomi, apriamo l’occhio destro e chiudiamo quello sinistro. Nella panoplia dei balzelli manca il pezzo forte: la riduzione delle tasse a chi le paga. Certo, c’è un taglio dell’imposta sul reddito per quei 13,6 milioni di contribuenti interessati, i quali sovvenzionano i 31 milioni di contribuenti che non contribuiscono affatto; tuttavia far scendere dal 35 al 33 per cento l’aliquota sui redditi fino a 50 mila euro l’anno non consente di recuperare il taglio provocato dall’inflazione. Si chiama drenaggio fiscale, è la differenza tra quanto corre il carrello della spesa e quanto arranca la busta paga netta; ebbene un sollievo di 37 euro al mese è una pizza più una birretta ogni quattro settimane. Semplificazione, lotta all’evasione, fisco amico, pace tributaria, quante ne abbiamo sentite nell’ultimo mezzo secolo e quante continuiamo a sentirne mentre ci dibattiamo in una miriade di norme palesi e occulte che ci costringono a pagare sempre e comunque. Irpef, Irpeg, Ires, Iva, Ilor, Ici, Imu, Iuc, Tari, Tasi, Irap, Tobin tax, bollo, registro, giochi, addizionali comunali, regionali, elettriche, canoni, accise… difficile star dietro alla girandola di nomi e acronimi che in parole povere significa: ti tartasso con una nuova tassa.

Era il 1974 quando le vecchie imposte reali (ricchezza mobile, fabbricati, terreni, redditi agrari) e personali (complementare sul reddito, imposta di famiglia), vennero sostituite dalle nuove imposte sul reddito delle persone fisiche (Irpef) e delle persone giuridiche (Irpeg), nonché quella locale sui redditi, l’Ilor che nel 1998 è stata sostituita dall’Irap. Un apposito provvedimento, 51 anni fa, raccolse le norme comuni in materia di accertamento delle imposte sul reddito, mentre altri decreti delegati dettarono le linee fondamentali delle agevolazioni tributarie, riformarono la riscossione delle imposte dirette, furono stabilite disposizioni sulla revisione degli estimi e del classamento del catasto terreni e fabbricati. Venne creata, infine, l’Anagrafe tributaria. Finiva un mondo tutto sommato rimasto lo stesso per un secolo e si apriva un mondo nuovo, nel quale regnava la progressività: chi più guadagna più paga. Ma la fantasia estrattiva dei governi non ha limiti. Prendiamo il canone televisivo che risale al 1938; è servito a tenere a galla la tv di stato, ma con l’arrivo delle reti private è diventato una tassa sul possesso dell’apparecchio televisivo. Poi, vista l’ampia evasione di quello che, proprio grazie alla liberalizzazione delle trasmissioni via etere, era diventato solo vessatorio, il balzello di 90 euro è stato inserito nella bolletta elettrica emessa da società private; la stessa Enel lo è anche se il Tesoro ne possiede il 23,6 per cento. C’è del metodo in questa follia? Sì, è il metodo della gabella.

Dove sono i No tax?

Sorprende che nel paese dai mille campanili e dai mille più uno No, manchi un movimento contro “le cento tasse degli italiani”; citiamo il titolo di un libro di successo pubblicato nel 1986 da due esperti, Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti, che si sono trovati, il primo come ministro il secondo come consigliere, nel cuore della giungla fiscale. Da allora non è cambiato nulla di sostanziale. Ma nessun No Tax è sceso in piazza. Sarà perché ciascuno cerca un accomodamento per se stesso, in mezzo a un sistema pieno di scappatoie, mance, remissioni, esenzioni, elusioni e soprattutto evasioni. Eppure un paese in cui una minoranza tartassata alimenta una maggioranza in un modo o nell’altro condonata, dovrebbe essere percorso almeno da fremiti anti-fiscali se non da veri e propri movimenti, magari con sponde diverse, come il Tea party esploso nel 2009 al quale aveva aderito anche Marco Rubio oggi segretario di stato nell’amministrazione Trump, o come il Tax the rich (anch’esso americano). Proprio negli Stati Uniti nacque lo slogan no taxation without representation, i coloni non essendo rappresentati a Westminster, rifiutavano di pagare la tassa sul tè e le prime resistenze sfociarono in un rivoluzione che condusse all’indipendenza. In Italia dove la fantasia ribellista non manca, magari potrebbe nascere un movimento affinché chi non paga le tasse e gode in ogni caso della sanità per tutti, della scuola praticamente gratuita, delle pensioni quasi universali, perda il diritto alla cittadinanza, quindi al voto. Lo slogan sarebbe no taxation no representation. Meglio “pagare meno pagare tutti”, d’accordo, ma quanti di noi sono diventati vecchi sentendolo recitare inutilmente? Matteo Salvini lo ha fatto suo per introdurre la flat tax sui redditi da lavoro autonomo, là dove s’annida l’evasione. Come è andata? 
Secondo uno studio del Mef, il regime forfettario ha avuto effetti insieme positivi e negativi. Ha fatto aumentare i contribuenti che dichiarano di più partendo da un valore basso, sia rendendo meno conveniente evadere, sia incentivando la crescita delle imprese. Ma attenzione, anche chi non evade può restare sotto la soglia (salita da 65 mila a 85 mila euro l’anno) per sfruttare la tassazione agevolata, mantenendo piccola la propria dimensione aziendale C’è un altro rilevante effetto perverso: i contribuenti maggiori sono incentivati a nascondere parte dei ricavi e ciò aumenta l’evasione fiscale vera e propria. Nell’insieme, sembra prevalere il lato oscuro delle piccole partite Iva, ma la quantità di gettito che si perde con le grandi è maggiore, un colpo ulteriore alle casse pubbliche. I dati del ministero dell’economia e delle finanze mostrano che oltre la metà dei proprietari di bar e ristoranti dichiara un reddito di 15 mila euro l’anno, ancor meno affidabili fiscalmente i titolari di discoteche (ricordate che cagnara hanno fatto anni fa per farsi tutelare?), negozi di abbigliamento, giocattoli persino. Per non parlare dei balneari: il 58 per cento sostiene di guadagnare ancor meno di 15 mila euro l’anno. E non buttiamola sempre sui soliti meridionali: la metà delle partite Iva lombarde sono sotto osservazione, il 53,3 per cento è considerato inaffidabile dal lombardissimo ministro Giancarlo Giorgetti. Altro che terroni. 

L’evasione dei piccoli è più grande di quella dei veramente grandi, lo spiega nel suo libro intitolato “L’economia delle tasse” (Il Mulino, 2025) Alessandro Santoro, professore ordinario di Scienza delle finanze nell’Università di Milano-Bicocca, già consigliere di vari ministri, presidente della Commissione per l’economia non osservata e l’evasione fiscale, nonché componente del comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate. Il più recente rapporto del Mef scrive che tra il 2017 e il 2021 l’evasione media è ammontata a 84 miliardi l’anno. L’evasione “ad alta intensità” di autonomi e piccole imprese sottrae in totale all’erario oltre 31 miliardi di gettito fiscale ogni anno, pari al 69 per cento del gettito atteso. Secondo l’Atlante del mondo offshore, i ricavi erariali persi a causa dello spostamento di profitti nei paradisi fiscali da parte delle multinazionali si fermano appena a sette miliardi (per il 90 per cento dovuti a paradisi fiscali all’interno della Ue). Alla faccia dei populisti di destra e di sinistra.

Fisco à la carte

Si è fatto molto per indurre un cambiamento. Romano Prodi è ricorso alla religione, non solo al precetto evangelico di “dare a Cesare quel che è di Cesare”, ma a San Paolo che scrive ai romani: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta”. Il laico Tommaso Padoa Schioppa allora ministro dell’economia, l’ha buttata sull’estetica: “Pagare le tasse è bello” arrivò a dire suscitando ilarità più che irritazione; i berlusconiani si scompisciarono, i leghisti, che in media non hanno gran senso dell’umorismo, lo attaccarono con il coltello tra i denti, ma bisogna dire che lo sconcerto si diffuse anche a sinistra. E’ vero che negli ultimi anni l’Agenzia delle entrate, nella sua diuturna lotta contro gli scrocconi fiscali, ha recuperato un bel mucchio di denaro dovuto: esattamente 26 miliardi e 300 milioni di euro l’anno scorso, il risultato migliore di sempre; ma certo non basta. L’evasione dell’Irpef da lavoro autonomo e impresa, è appena scalfita.

Condoni, sanatorie, concordati. Che effetto hanno avuto? Ora si chiama “pace fiscale” e passa attraverso la “rottamazione delle cartelle esattoriali” per svuotare il “magazzino fiscale” (sono quasi 176 milioni). Secondo l’agenzia delle entrate avevano un valore di 1.300 miliardi accumulati tra il 2000 e il 2024. Il 40 per cento è difficilmente recuperabile insomma diamolo per perso. Se si tolgono le cartelle per cui è stata sospesa la riscossione perché hanno beneficiato di condoni ancora in corso, restano quasi 700 miliardi di euro. Di questi, 581 miliardi sono relativi a contribuenti verso cui gli agenti della riscossione hanno già avviato azioni di recupero. Nel complesso i morosi sono 22 milioni e 300 mila: 3,5 milioni sono società, 2,9 milioni professionisti e artigiani il resto contribuenti comuni. Con la legge di bilancio per il 2026 siamo alla quinta rottamazione, con una sorpresina: la sanatoria costerà di più, viene applicato cioè il tasso d’interesse del 4 per cento quello abituale dell’Agenzia delle entrate invece del 2 per cento come l’anno scorso. Il condono sarà pur sempre vantaggioso, “un mutuo a lungo termine”, lo ha chiamato Salvini che si considera il grande pacificatore. Dimentica di dire che uno dei punti deboli in questa remissione dei debiti è la “fuga dalle rate” che questa volta potrebbe essere più facile, visto che nel provvedimento presentato mancano i “meccanismi punitivi” annunciati da Giorgetti. Una pura dimenticanza? Un’altra novità è la libertà di rottamazione lasciata agli enti locali su Imu, Tari, multe, canoni ed entrate varie. Una bella boccata di libertà o di licenza? C’è già chi pianifica di violare ogni limite di velocità nella provincia o nella Regione “amica”, così, tanto per vedere l’effetto che fa avrebbe cantato Enzo Jannacci. Canzoni a parte, emerge il quadro di un fisco sempre più incerto, aleatorio, complicato, discrezionale, un fisco à la carte. Il contrario di come dovrebbe essere. 

L’esattore in frac

Forse bisognerebbe introdurre per le imposte un personaggio come lo spagnolo Cobrador del Frac. Vestito in abito a code, con cilindro in testa, va in giro a scovare chi non paga i debiti, è un recupero crediti teatrale, ma molto professionale e quanto pare efficiente. Cobrador del Frac è il nome di una impresa che è la numero uno in Europa in questo mestiere; siccome il sistema ha successo, altre società si sono attrezzate con costumi meno stilosi, c’è chi si traveste da Zorro, chi da monaco, chi indossa il kilt o il costume catalano, chi persino la tutina da Pantera rosa. In Italia si vestirebbero da Arlecchino servitore di due padroni: l’esattore e l’evasore nello stesso tempo. Gli spagnoli fanno leva sulla vergogna, la pubblica umiliazione, e ci sarebbe un illustre antenato, addirittura Miguel de Cervantes Saavedra, sì, l’autore del Don Chisciotte, che aveva lavorato per ben sette anni nella Hacienda Real (il Tesoro del sovrano), dedito alla caccia al moroso e incaricato di esigere razioni di grano, olio ed altre provvigioni destinate all’Invencible armada che sfidò gli inglesi e fu sconfitta da Francis Drake un pirata con la lettera di corsa firmata dalla regina Elisabetta. Il cobrador è pura iniziativa privata anche se con fine pubblico, non riguarda le imposte, ma i prestiti, si presenta a casa, al bar, in negozio, in ufficio, ovunque. Potremmo dire che è un sistema un po’ medievale, più elegante dello sceriffo di Nottingham, ma non molto diverso, anche se vi si fa ricorso quando leggi, regole e procedure pubbliche fanno fallimento. 

In Italia dovremmo prima fare in modo che i vizi privati non si annidino nelle scarse virtù pubbliche e non si moltiplichino i sistemi legali per non pagare, come detrazioni e deduzioni. Il metodo maggiormente impiegato è il primo, per ridurre l’importo dell’Irpef. Supponiamo che si debba versare un’imposta pari a 7.800 euro, ma si abbia anche diritto a 1.950 euro di detrazioni (considerando spese sanitarie, di istruzione, funebri, per lavori edilizi realizzati sulla casa, per interessi passivi del mutuo). Il totale da versare passa, quindi, a 5.850 euro. Lavoratori dipendenti e pensionati percepiranno un rimborso perché l’Irpef viene già trattenuta mensilmente dalla busta paga o dalla pensione. Meno usata è la deduzione che non agisce sulle imposte da pagare, ma sul reddito imponibile. Strano, perché è uno strumento particolarmente vantaggioso per i contribuenti i quali hanno la possibilità di pagare meno e di accedere uno scaglione di reddito inferiore sul quale si applica un’aliquota minore. Prendiamo un lavoratore dipendente con un reddito complessivo lordo di 37.000 euro che ha contribuito al fondo pensione (importo interamente deducibile) e ha riscattato un anno di studi universitari ai fini pensionistici. La spesa deducibile sostenuta, in questo caso 11.000 euro, viene sottratta dal suo reddito complessivo lordo e le tasse sono calcolate su 26.000 euro. Quanto risparmia? Senza deduzione, l’imposta lorda sarebbe pari a 9.590 euro, con la deduzione sarebbero 5.980 euro, con un vantaggio di oltre 3.600 euro. Nulla di illegale, nulla di male, ma anche questo rende più fitta la giungla delle tasse. Basta gettare un’occhiata alla lista delle deduzioni possibili: contributi previdenziali e assistenziali; contributi e premi derivanti da forme pensionistiche complementari e individuali; assegni periodici corrisposti all’ex coniuge; contributi previdenziali per gli addetti ai servizi domestici e familiari; contributi ed erogazioni a favore di istituzioni religiose; spese mediche e di assistenza specifica per le persone con disabilità; contributi versati ai fondi integrativi del Servizio sanitario Nazionale; contributi alle Ong che operano con i paesi in via di sviluppo; le varie forme di erogazioni liberali, senza dimenticare la deduzione forfettaria per i camionisti. Invece che moltiplicare le scappatoie non è meglio ridurre davvero le aliquote, rendendo la tassazione più trasparente per il cittadino e anche più controllabile per l’autorità pubblica?

Dalle parole alle cose

Finora abbiamo parlato delle imposte sui redditi, inique perché lasciano spazio a chi non paga, ma ancor più vessatorie sono quelle sulle cose, a cominciare dalla tassa sulla casa. Nessuno la vuol chiamare così, ma è una vera patrimoniale. La ricchezza degli italiani nel 2024 era pari 11 mila 700 miliardi di euro, circa la metà in case e terreni. Una ricchezza immobile che a differenza dalla ricchezza mobile, come veniva chiamata l’antenata dell’Irpef che durò quasi cent’anni dal 1867 al 1974, è molto più difficile da nascondere. E’ vero, il catasto non è attendibile e chiunque abbia tentato di aggiornarlo è stato massacrato, anzi è bastato proporlo come ha fatto Prodi sulle orme paoline, prima di rinunciare evitando così di finire come l’apostolo alle Tre Fontane. C’è voluta la crisi del 2011, quando per una settimana in quel fatal novembre mancavano persino contanti nei bancomat, per far passare l’aumento dell’Imu con il decreto Salva Italia del 6 dicembre. L’imposta municipale unica era stata introdotta in verità dal governo Berlusconi, già claudicante, nel marzo di quell’anno, per sostituire l’Ici, l’imposta comunale sugli immobili decisa in un altro anno di crisi nera, il 1992 quando crollò la lira. Nata come tassa straordinaria durò 16 anni fino al 2008 quando Berlusconi promise di abolirla, vinse le elezioni e tenne fede al proprio impegno. Applicata anche sulla prima casa, era diventata la fonte principale di entrate per i comuni, ma non poteva durare. L’Imu nella versione originaria escludeva l’abitazione principale, assorbiva Ici e Irpef, ma introduceva anche un’imposta municipale secondaria considerata facoltativa, una facoltà della quale si avvalsero in abbondanza le amministrazioni locali. Il decreto Monti inserì di nuovo la prima casa. La rendita catastale rivalutata del 5 per cento era la base di partenza alla quale applicare l’aliquota dello 0,40 per cento. Ma ogni comune poteva variare da un minimo dello 0,20 al massimo dello 0,65 per cento. Fu la frustata fondamentale per evitare il collasso delle finanze pubbliche, però divenne anche la condanna politica del professore e senatore a vita al quale ancor oggi si stenta a riconoscere di aver davvero salvato l’Italia come prometteva il suo decreto, adottato con coraggio e determinazione. Non tutti gli italiani gli furono contro. Molti gli riconobbero l’onore delle armi e alle elezioni del 2013 la sua coalizione chiamata “Monti per l’Italia” ottenne un risultato consistente: 9,13 per cento al Senato e 10,56 alla Camera. Un consenso poi dissipato. 

Tassare non è bello, diventa indispensabile quando l’acqua arriva alla gola. L’Imu sulla abitazione principale non c’è più, era una misura eccezionale ed è stata abolita nel 2008 a meno che non si tratti di un immobile di lusso. Dal 2014 è entrata a far parte della Iuc, Imposta comunale unica, insieme alla Tari (Tassa sui rifiuti) e alla Tasi (tassa sui servizi indivisibili). Ma attenzione, nel 2020 è entrata in vigore la Nuova Imu che ha assorbito la Tasi. Questa patrimoniale pesa ormai solo a partire dalla seconda casa con un costo che varia in media dai 6.800 euro a Grosseto ai seimila euro l’anno a Milano ai 4.338 di Siena con Milano a seimila e Roma terza in classifica a 5.773. In media si tratta di 2.531 euro l’anno. Nel loro insieme le tasse sulla casa sono pari al 5,9 per cento del prodotto lordo italiano, è molto, ma non è un record europeo: la Francia batte tutti con il 10 per cento seguita dalla Gran Bretagna.

Accisa non uccisa

Ci siamo persi nello straordinario regno delle gabelle e il tour ci ha portato in un labirinto senza filo di Arianna. Riassumendo, ogni giorno della nostra vita abbiamo a che fare non solo con l’Irpef e con l’Iva le due grandi imposte, ma con l’Ires se abbiamo una società e con l’Irap (quella regionale), poi c’è la selva selvaggia nella quale penetriamo non appena dobbiamo trattare con il Leviatano: l’imposta di registro che risale al 1862 così come l’imposta di bollo, la più recente imposta sull’automobile, l’imposta sulle successioni e donazioni, l’imposta ipotecaria, l’imposta catastale, l’imposta di soggiorno, l’imposta di sbarco, l’imposta di scopo. E non è tutto, non possiamo certo dimenticare l’accisa. 

La parola viene dal latino, dal verbo accidere che vuol dire accadere, ma anche piombare sopra qualcuno o qualcosa. In italiano si tratta di un’imposta sulla vendita e sulla fabbricazione di prodotti di consumo. Una tassazione indiretta che si distingue dall’Iva perché si applica su specifiche categorie di beni, si basa sulla quantità e non sul prezzo, anche se condiziona fortemente il costo finale del prodotto per chi ne usufruisce. Le più importanti sono le accise sui carburanti, sul gas metano da riscaldamento, sull’elettricità, gli alcolici, i tabacchi, il gioco del lotto, ecc. A Napoli accisa potrebbe confondersi con uccisa, ma l’accisa in realtà nessuno può farla morire. A Giorgia Meloni è bastato entrare a palazzo Chigi per togliersi la tuta da benzinaia e capire subito con la rapidità che le si addice quanto sia difficile toccarla, ai limiti dell’impossibile. Le accise rappresentano una delle fonti principali per il bilancio dello stato, un quarto delle intere imposte indirette, e la più consistente è proprio quella sugli oli minerali. 

Non invidiamo certo il ministro Maurizio Leo, un vero esperto oltre che una persona seria senza grilli per la testa. Il governo gli ha affidato quella che dovrebbe essere una nuova grande riforma da varare entro la fine della legislatura per entrare in vigore in quella successiva. Ha un compito immane, sulla carta pari a quello di Bruno Visentini negli anni 70. Da allora ogni governo ha introdotto le sue piccole riforme, spesso smantellando quelle del governo precedente, ma le cento tasse degli italiani sono sempre lì, hanno cambiato troppo spesso nome e forma rendendo sempre l’intero sistema più incerto, ma non più leggero. Al contrario, il peso della tassazione è sempre cresciuto. La pressione fiscale nel 1975 era pari al 24,5 per cento del prodotto lordo, inferiore a quella media dell’Ocse (28 per cento). L’Italia ha fatto un balzo fino a raggiungere il 40,6 per cento nel 1993 quando la media Ocse era al 33. Da allora è salita al 44 nel 2013 in seguito alla “cura Monti”, poi è scesa di poco, oggi supera di poco 42, circa dieci punti più dell’Ocse rimasta sostanzialmente stabile nella forchetta tra 32 e 34 per cento. Cifre che parlano e ci dicono quale dovrebbe essere la rotta dell’Italia: avvicinarsi in modo significativo alla media dei paesi più industrializzati. Colmare quel fossato pari a dieci punti percentuali non è realistico, però il Bel Paese dove fioriscono le tasse è il peggiore in Europa dopo Francia e Danimarca. Non si farà nessun passo avanti se con una mano si rottama e con l’altra si prende ovunque si può, dalla benzina come sempre o ancora dalle sigarette, dalle auto e dai televisori, dagli utili delle banche (fino a 5 miliardi di euro l’anno prossimo) e soprattutto dalle buste paga, centesimo dopo centesimo, euro dopo euro, miliardi dopo miliardi. Confidiamo in Leo, che ruggisca a voce spiegata come suggerisce il suo cognome.

 

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