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L'analisi
La manovra è il trionfo di Meloni
Le banche accettano le tasse, la Confindustria è soddisfatta dei tagli, la Uil apprezza le poche risorse per il lavoro. In assenza di un’alternativa credibile, tutti scelgono la via della collaborazione con il governo
Come per ogni legge di Bilancio, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri e la diffusione delle “bozze” del decreto, parte la dialettica tra governo e gruppi sociali ed economici per eliminare o correggere specifiche misure. In questo la legge Finanziaria per il 2026 non fa differenza: chi protesta per i tagli, chi per l’aumento delle tasse, chi per l’assenza di misure di spesa. Ciò che è differente rispetto al passato, è che stavolta da parte dei gruppi di interesse più importanti – che pure non vengono trattati bene – non c’è alcuna protesta. Al massimo qualche lamentela, o la richiesta di correzioni a margine, in un più generale consenso con l’impostazione della manovra. Prendiamo tre degli attori economici e sociali più importanti del paese: banche, industria e sindacati.
Gli istituti di credito, che negli anni passati hanno protestato intensamente contro ipotesi di nuove tasse sugli “extraprofitti” fino a farle ritirare o diluire, questa volta subiscono un aumento delle tasse di gran lunga superiore: 4,5 miliardi nel 2026 e undici miliardi nel triennio. Il governo presenta agli istituti di credito il conto degli anni passati e anche per il futuro: c’è un’imposta semivolontaria sull’affrancamento delle riserve che le banche avevano accumulato per evitare la precedente tassa sugli extraprofitti, l’ulteriore slittamento delle Dta (misura già adottata in passato), altre misure sulla deducibilità degli interessi passivi e, inoltre, l’aumento di due punti dell’Irap. Questa misura, che da sola vale un miliardo annuo, nasce come temporanea per tre anni ma è ovviamente destinata a diventare strutturale. Dopo l’uscita delle bozze ci sono state un po’ di proteste dell’Abi, ma solo perché analizzando le singole misure il conto rischiava di essere superiore di un miliardo rispetto al previsto. Il governo, Abi e i rispettivi tecnici si sono confrontati e il disguido è stato risolto. Alla fine le banche hanno accettato tutto e senza grandi scontri, a parte qualche eccesso propagandistico di Matteo Salvini, dato che la premier Giorgia Meloni ha ringraziato banche e assicurazioni per “l’importante contributo” e la “disponibilità” a pagare.
Confindustria aveva lanciato qualche critica al braccino corto del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, dopo aver chiesto al governo un Piano straordinario di investimenti da otto miliardi l’anno per tre anni. Alla fine il governo ha detto di aver stanziato otto miliardi in tre anni (un terzo), che però in realtà è finanziato tagliando altrettante risorse dagli investimenti del Pnrr che il governo non è riuscito a spendere (su tutti Transizione 5.0 del ministro Adolfo Urso). Per il 2026 il saldo è addirittura negativo: meno due miliardi di investimenti. Eppure, dopo aver visto i numeri, il presidente di Confindustria Emanuele Orsini si è detto soddisfatto: “Abbiamo dialogato con il governo e le nostra richieste sono state ascoltate”.
Parole simili a quelle della Uil: “Il governo ha messo due miliardi sulla contrattazione, ha ascoltato la nostra proposta”, ha detto il segretario generale Pierpaolo Bombardieri. Poca roba, a guardare le cifre. In tutte le precedenti leggi di Bilancio, contro cui la Uil ha proclamato lo sciopero generale con la Cgil, il governo aveva stanziato molte più risorse a favore dei lavoratori e su misure chieste dai sindacati. Stavolta il governo stanzia una frazione dei 18 miliardi messi in passato per il taglio del cuneo fiscale e, con tutta probabilità, per la prima volta la Uil non farà lo sciopero generale. Cos’è successo a tutti? Se la risposta non è nei numeri, allora è nella politica.
Questa legge di Bilancio da 18 miliardi, che è circa la metà della prima di questa legislatura, è tanto piccola nell’entità finanziaria quanto grande nel significato politico. Segna il trionfo di Giorgia Meloni. La presidente del Consiglio può permettersi il lusso, caso davvero unico in Europa, di procedere in maniera serrata con un aggiustamento fiscale senza temere contraccolpi sul lato dei consensi. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, nel sentiero strettissimo del piano di rientro concordato con Bruxelles, può permettersi di stringere ulteriormente la cinghia quest’anno per lasciarsi qualche margine in più per l’ultima legge di Bilancio, quella preelettorale per il 2027, senza temere attacchi dai partiti di maggioranza, dai corpi intermedi, dagli attori economici. Può dire no a Salvini sulle pensioni e a Tajani sul taglio dell’Irpef per il ceto medio, oltre che all’Abi e a Confindustria, con quest’ultima che ha provato, brevemente e inutilmente, a criticarlo. Qual è la spiegazione? Tutti nel paese si sono convinti della virtù dell’austerità fiscale e dell’importanza di avere conti pubblici in ordine? Vorrebbe dire che il paese ha fatto un improvviso salto culturale, ma purtroppo non è questa la ragione.
La ragione è che ormai, tutti, si sono convinti che Giorgia Meloni è qui per restare altri cinque anni. E allora, per gli attori economici e i sindacati che non sono vocati all’antagonismo di piazza o alla rivolta sociale, diventa necessario costruire un rapporto se non di sottomissione (giammai di cortigianeria) quantomeno di collaborazione con il governo. Se, per ipotesi, le elezioni regionali avessero avuto un risultato diverso le cose sarebbero andate diversamente. Se il centrodestra avesse perso nelle Marche e in Calabria, sull’onda delle piazze pro Pal, la discussione sulla manovra sarebbe stata opposta: assalto alla diligenza dei partiti di maggioranza, proteste di banchieri e industriali, scioperi generali già convocati contro la macelleria sociale... Ma la realtà, o quantomeno la sensazione diffusa, è che non c’è un’alternativa politica alla Meloni. C’è ovviamente un’opposizione riunita in un “campo largo”, che va da Conte a Renzi ed è forse guidato da Schlein, ma non è un’opzione credibile di governo né nei numeri né nelle proposte. E l’impressione che questo schieramento non possa competere con il centrodestra si sta trasformando nella convinzione che sia peggio della Meloni. Ma questo non fa bene alla salute della democrazia, perché senza la pressione di un’alternativa competitiva l’azione del governo è destinata a degradarsi.
Nel frattempo, mentre aspetta che nasca una proposta sensata di centrosinistra, il paese si fa andare bene quello che c’è. E ora c’è solo Giorgia Meloni.
