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Conti pubblici

L'aumento del debito americano mette in allerta per possibili choc

Lorenzo Bini Smaghi

Nell’immediato, l’impulso fiscale contribuisce a sostenere l’attività economica e contrasta, almeno in parte, l’aumento dei dazi. Ma il proseguimento dello stimolo fiscale nei prossimi anni non consente di sostenere la crescita in modo permanente né di evitare il forte deterioramento dei conti pubblici

Ogni sei mesi il Fondo monetario internazionale rivede le proprie previsioni sull’economia mondiale. Quelle pubblicate questa settimana segnano differenze marginali rispetto a quelle della scorsa primavera, e anche rispetto a un anno fa. Ad esempio, la crescita globale dovrebbe attestarsi quest’anno poco oltre il 3,2 per cento, sostanzialmente in linea con quanto previsto nello scorso autunno e un po’ meglio di quanto stimato nelle previsioni dell’aprile scorso. Guardando alle grandi aree, gli Stati Uniti dovrebbero crescere un po’ più lentamente del previsto (2 per cento contro il 2,7 previsto un anno fa), l’Europa poco di più (1,2 per cento contro l’1), mentre in Asia la ripresa appare più robusta (5,2 per cento contro il 4,5) soprattutto grazie alle performance di Cina e India. In sintesi, l’economia mondiale non sembra per ora risentire in modo significativo delle crescenti incertezze e delle tensioni geopolitiche emerse nei mesi recenti.

 

C’è solo un dato che segna una forte divergenza rispetto alle previsioni precedenti. Riguarda la dinamica del debito pubblico americano. La traiettoria del debito, rispetto al prodotto lordo, che un anno fa era prevista raggiungere il 130 per cento alla fine del decennio, viene rivista al rialzo di ben 10 punti percentuali, al 143 per cento. Ciò significa che nei prossimi 5 anni il debito aumenterà complessivamente di 20 punti rispetto al pil. Si tratta di una ulteriore accelerazione rispetto all’aumento registrato negli ultimi 25 anni (nei quali il debito è passato dal 60 al 120 per cento del pil).

 

Il rialzo è in gran parte dovuto alla politica di bilancio adottata dall’Amministrazione americana, sotto il nome di Big Beautiful Bill, che peggiora il disavanzo di circa 1,5-2 punti di pil all’anno, rispetto alla precedente impostazione. Nei prossimi 5 anni non è previsto alcun calo dell’indebitamento, che dovrebbe rimanere in media tra il 7,5 e l’8 per cento del prodotto lordo. Il saldo primario, cioè escludendo i tassi d’interesse, è previsto ancora in disavanzo tra il 3,5 e il 4 per cento del pil fino alla fine del decennio. In confronto, il debito pubblico europeo è previsto in aumento di soli 6 punti nella rimanente parte di questo decennio, fino al 92 per cento del pil, con un disavanzo pari alla metà di quello americano.

 

Gli Stati Uniti si apprestano a diventare il paese con il secondo debito pubblico più elevato al mondo, in rapporto al prodotto, dopo il Giappone. In Giappone, però, la gran parte dei titoli di stato è detenuta dagli stessi giapponesi, in particolare dai fondi pensione e dalla banca centrale. Gli Stati Uniti, invece, devono ricorrere al risparmio estero per vendere il proprio debito. L’impostazione fortemente espansiva della politica di bilancio seguita dalla nuova Amministrazione produce effetti diversi, nel breve e nel medio periodo. Nell’immediato, l’impulso fiscale contribuisce a sostenere l’attività economica e contrasta, almeno in parte, l’effetto restrittivo derivante dalle altre misure, come l’aumento dei dazi e i tagli alle spese sociali. Ciò spiega perché, nonostante l’incertezza di questi mesi, l’economia americana abbia tenuto, almeno finora. 

 

Il proseguimento dello stimolo fiscale nei prossimi anni non consente tuttavia di sostenere la crescita in modo permanente né di evitare il forte deterioramento dei conti pubblici. Non c’è dubbio che le previsioni a un orizzonte di tempo così lungo sono complesse e comportano margini significativi di incertezza. E’ difficile anticipare come evolverà la politica di bilancio americana. Le proiezioni del Fondo monetario si basano su un lieve ma continuo aumento della spesa pubblica, dal 37,8 per cento del pil alla fine di quest’anno al 38,2 per cento alla fine del decennio. La pressione fiscale continua invece a ridursi, almeno fino al 2029. D’altro canto è difficile ipotizzare drastiche inversioni di tendenza, almeno fin quando persiste una forte polarizzazione politica. E’ difficile anticipare anche l’impatto che potranno avere alcuni fattori esogeni, come la diffusione dell’intelligenza artificiale, sulla produttività e sulla la crescita economica, che potrebbero essere fortemente sottostimati. 

 

Non si può però ignorare il fatto che le previsioni attuali si basano sull’ipotesi che i mercati finanziari continuino ad avere un atteggiamento alquanto benigno nei confronti del debito e della moneta americana. Tale ipotesi rischia di rivelarsi eccessivamente ottimistica. I mercati si comportano tipicamente in modo non lineare, reagendo all’improvviso a notizie o a dati statistici non in linea con le previsioni. Un effetto detonante potrebbe provenire dalla pubblicazione nei prossimi mesi di un dato sull’inflazione americana più elevato del previsto, che potrebbe rimettere in discussione le aspettative di riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Ciò innescherebbe un rialzo immediato dei rendimenti sui titoli di stato a varie scadenze, il che farebbe ulteriormente aumentare l’onere del debito e il disavanzo pubblico. Il risveglio delle paure inflazioniste, in queste condizioni, potrebbe essere quello di produrre effetti tellurici sui mercati finanziari.