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L'intervento
Conti e finestre. Cosa rende da conservatori la prossima legge di Bilancio
Non ci sono margini per politiche fiscali espansive. E una manovra contenuta è un buon segno per tutti: la priorità non è spendere di più o tagliare le tasse in deficit, ma usare meglio le risorse, in particolare quelle del Pnrr, e proseguire con le riforme strutturali
II bilancio appena presentato dal governo invita a guardare la foresta, non solo l’albero. Fuori di metafora ci sarà tempo, con la discussione sulla legge di Bilancio, di guardare ai singoli provvedimenti, ma il Dpb deve essere guardato nel suo insieme e in un quadro di policy prospettico. In altri termini, guardiamo alla foresta.
Un modo di interpretarne il significato, in continuità con la politica di bilancio degli ultimi due anni, è ricordare come nei manuali di macroeconomia americani in voga negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, ma adottati anche in Italia, si descriveva in modo stilizzato la diversità di impostazione delle politiche economiche progressiste rispetto a quelle conservatrici, anche se, a quei tempi, le politiche erano tutte di impostazione keynesiana. I progressisti, si affermava, di fronte a una congiuntura negativa, o una recessione, adottano una politica fiscale espansiva basata sull’ampliamento della spesa pubblica. Poi quando si tratta di rientrare dal deficit pubblico creato, aumentano le tasse. In tal modo si persegue un aumento tendenziale del bilancio pubblico e della presenza dello stato nell’economia.
Al contrario, i conservatori di fronte a un rallentamento dell’economia adottano una politica fiscale espansiva mediante una riduzione delle tasse. Poi quando si tratta di rientrare dal debito, tagliano la spesa. Il risultato è un contenimento o riduzione tendenziale del bilancio pubblico e del peso dello stato nell’economia. La storia non ha del tutto confermato questa predizione e, sia negli Stati Uniti sia in Europa e in Italia, la posizione teoricamente conservatrice non è stata molto frequentata. Ma veniamo all’Italia e al Dpb presentato dal governo in carica che si qualifica, credo, come conservatore. Nel 2023 si trova di fronte a una esplosione del deficit ereditato dagli anni precedenti e dovuto a esplosione della spesa, non a riduzione delle tasse. La giustificazione era la crisi da Covid più un’aggiunta di incompetenza e/o una forma di eversione economica che produsse il Superbonus.
Da questo deficit era necessario rientrare in fretta non solo per rispettare le nuove regole fiscali europee, ma per evitare un possibile default. Il rientro come è avvenuto? Il saldo primario, cioè il saldo di bilancio al netto della spesa per interessi, è passato dal valore negativo di 4 punti percentuali del pil nel 2022 al valore positivo dello 0,9 per cento previsto per l’anno in corso e all’1,2 per cento programmato con il Dpb per il 2026. Si tratta di una correzione del saldo primario di 5,2 punti percentuali di pil in quattro anni, le cui conseguenze positive sulla stabilità finanziaria ed economica non sono contestate se non da poche parti politiche estreme, ha consentito di ritornare, in anticipo sul previsto, a un indebitamento netto inferiore alla soglia del 3 per cento con l’uscita dalla procedura di deficit eccessivo già dal prossimo anno. Non mi sembra che questa correzione si sia basata fondamentalmente su un aumento di tasse, patrimoniali o altro. Nel corso di questi anni, la cosiddetta pressione fiscale non è diminuita e, come è stato notato, è aumentata all’incirca di un decimale, soprattutto nel 2024 per l’effetto dell’inflazione sulle entrate tributarie, e poi è rimasta sostanzialmente costante con limitate ricomposizioni delle fonti di gettito.
In generale a favore dei redditi più bassi, ma non solo. Nonostante l’azione prudente di riduzione del cuneo fiscale e di varie aliquote, l’effetto non si legge nell’aggregato per vari motivi. L’aumento di occupazione e la sua composizione è uno dei motivi addotti. Il recupero dei redditi da lavoro dipendente sull’inflazione un altro. Il recupero parziale sul fiscal drag è appena iniziato. Non si hanno ancora i dati per gli ultimi anni, ma fino a pochi anni fa anche il tasso di evasione era in diminuzione lenta e ciò può aver influito, per decimali, se si confermasse il trend in aumento della pressione fiscale.
Al contrario, la correzione della spesa al netto degli interessi in percentuale del pil è stata forte e netta nel 2024 e poi si è mantenuta e sostanzialmente programmato il controllo della spesa per i prossimi anni. Da ciò deriva la correzione del saldo primario, la stabilizzazione della finanza pubblica e il recupero del favore dei mercati. Lo sguardo alla foresta ci dice, quindi, che in effetti siamo in una coerente politica economica di rientro dal deficit, e quindi non espansiva, di tipo teoricamente “conservatore”. Ciò non implica di per sé che sia corretta, ma solo che c’è una coerenza politica di comportamento. Ma affermare che non sia corretta significa affermare che oggi ci sia lo spazio e la convenienza in Italia per una politica fiscale espansiva, cioè di spinta sulla domanda con aumento del deficit e del debito. La mia risposta è no, sia in una interpretazione progressista, espansione della spesa, sia in una interpretazione conservatrice, cioè accelerazione del taglio delle tasse. E non solo perché siamo in Europa e siamo tenuti a rispettare le regole fiscali europee del nuovo Patto di stabilità. Vi sono due motivi sostanziali per non farlo.
Il primo è che la reputazione di maggiore stabilità finanziaria, e aggiungerei anche di stabilità economica perché si cresce poco ma senza sbalzi si cresce, mette l’Italia in condizioni di rispondere meglio a choc esterni in un momento di grande incertezza globale e di pericolo di instabilità finanziaria proveniente dall’esterno. Si ricordi che incombe anche la necessità di aumentare la spesa militare e la stabilità finanziaria permette anche di negoziare con più autorevolezza sia a Bruxelles sia con il resto del mondo. Il secondo motivo è che non è la mancanza di stimoli fiscali, cioè di maggior debito, buono o cattivo, che impedisce all’Italia di avere un tasso di crescita più elevato, ma la capacità di usare bene le risorse. Il Pnrr ha messo a disposizione molte risorse, e anche maggiore debito, ma ancora non è chiaro se l’effetto di domanda sulla crescita dovuto alla maggiore spesa stia realmente incidendo sulla capacità di crescita guidata da maggiore produttività e maggiore efficienza del sistema. In altri termini, per usare il gergo degli economisti, non è chiaro se vi sarà un effetto dal lato dell’offerta sulla crescita di medio-lungo periodo. La finanza pubblica può dare un contributo, ma non ampliando la spesa, o riducendo le tasse in deficit, quanto cambiando progressivamente la composizione della spesa stessa e anche delle entrate. Ciò significa che, per tornare alla metafora iniziale, si devono guardare anche i singoli alberi oltre che la foresta.
Per il resto, il compito da parte pubblica è quello di accelerare le riforme (giustizia, Pa, concorrenza). Mi sembra anche bizzarro criticare la proposta di bilancio per il prossimo anno affermando che si tratta di una manovra “piccola”, appena 18 miliardi. A me sembra che, al contrario, questo sia un aspetto positivo. Le manovre molto grandi, per dimensioni di aggiustamento dal lato della spesa o delle entrate, si hanno in genere in presenza di emergenze o, molto raramente, quando si approvano riforme epocali che stravolgono il bilancio. Poiché non vediamo queste ultime in arrivo, una manovra molto contenuta forse può essere letta come segno che le cose non vanno tanto male e, quindi, non richiedono grandi interventi.
