
Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti (foto Ansa)
Meloni festeggia lo spread che scende. Ma ora il costo del debito sale
Sbaglia, però, chi pensa che la riduzione dello spread, di cui il governo Meloni va fiero perché vuol dire maggiore affidabilità del paese sui mercati internazionali, si sia tradotto in una parallela riduzione del costo del debito pubblico
Come ha certificato di recente la Banca d’Italia, lo spread si è ridotto di 100 punti base negli ultimi due anni e di quasi 50 nell’ultimo anno arrivando a oscillare intorno a 80 punti base. E questo ha spinto alcune agenzie di rating a migliorare il giudizio sul merito di credito dell’Italia nonostante il difficile contesto geopolitico e macroeconomico. Sbaglia, però, chi pensa che la riduzione dello spread, di cui il governo Meloni va fiero perché vuol dire maggiore affidabilità del paese sui mercati internazionali, si sia tradotto in una parallela riduzione del costo del debito pubblico che, anzi, è in leggero aumento.
Essere giustamente premiati come paese per la prudenza nella gestione dei conti pubblici – soprattutto in rapporto ad altri paesi come Francia e anche Regno Unito che stanno facendo peggio - non vuol dire che da qualche parte nelle casse del Tesoro si stia accumulando uno spazio fiscale, un tesoretto insomma, da poter spendere in altri modi. La ricerca affannosa di coperture per la prossima manovra economica, compresi i 3-5 miliardi di contributo richiesto alle banche, fa pensare che la coperta sia sempre molto corta.
Secondo le ultime proiezioni di Goldman Sachs, il costo medio del debito pubblico italiano era del 2,9 per cento nel 2024, è del 3 per cento quest’anno e sarà del 3,1 per cento nel 2026. Una tendenza all’aumento che riflette soprattutto i rendimenti dei btp a 10 anni che da inizio settembre 2024 ad oggi sono rimasti praticamente invariati nonostante la riduzione dello spread: oscillano intorno a 3,5-3,6 per cento (solo nella giornata di ieri si è registrato un calo al 3,4 per cento). Questo vuol dire che il tasso d’interesse riconosciuto agli investitori è pur sempre quello di un paese che ha un rapporto debito/pil del 137 per cento. Eppure, alcuni osservatori, soprattutto nei giorni in cui c’è stata la promozione del rating da parte di Fitch, hanno ipotizzato che l’abbassamento dello spread sovrano potesse portare a un risparmio di costi per il governo e quindi a una maggiore disponibilità di spesa, ma non è così. Come spiega al Foglio Filippo Taddei, senior european economist di Goldman Sachs, “I benefici della riduzione dello spread sui conti pubblici si vedono in genere in un orizzonte di cinque-sette anni e, comunque, non hanno un impatto considerevole sui conti di uno stato se non si tratta di grandi cambiamenti. Nel caso dell’Italia, la forbice con le obbligazioni tedesche si è accorciata in parte per i progressi del governo nella gestione dei conti pubblici e in parte perché sono aumentati i rendimenti dei titoli tedeschi”. Taddei ricorda cosa è successo la scorsa primavera: “Quando il governo tedesco ha annunciato l’enorme pacchetto fiscale per investimenti nella difesa e infrastrutture i rendimenti dei bund si sono alzati accorciando le distanze con quelli dei btp”. Così, nonostante lo spread si sia ridotto. “ il costo che lo stato italiano sostiene per finanziarsi ha semmai una tendenza di lieve crescita” sottolinea l’esperto.
Eppure, a dicembre 2024, l’Ufficio parlamentare del bilancio, l’Upb, aveva stimato un risparmio di 17 miliardi nell’arco di cinque anni di interessi sul debito proiettando nel tempo il ribasso della curva dei rendimenti che si registrava in quel momento. Ma poi quella tendenza virtuosa si è fermata. E lo stesso Upb, sostiene che la spesa per interessi “è stimata in aumento nel 2025 a seguito del volume crescente di emissioni e della trasmissione dei passati aumenti dei tassi su una quota crescente di debito pubblico”. A confermarlo è lo stesso Mef nel documento programmatico di economia e finanza. I tassi di interesse calcolati sul debito a lungo termine sono previsti in aumento al 3,8 per cento nel 2026 e al 4 per cento nel 2027, rispetto al 3,6 per cento di quest’anno che è leggermente inferiore al 3,7 del 2024. In altri periodi storici un tale disaccoppiamento tra spread e rendimenti si è visto molto meno. Nel periodo tra il 2018 e il 2021 (governi Conte uno e due) succedeva che alle fiammate del differenziale corrispondeva l’aumento dei rendimenti sovrani (arrivarono a superare il 5 per cento) e viceversa. Cosa è cambiato? “E’ molto semplice – prosegue Taddei - all’epoca la Germania pagava agli investitori rendimenti tra lo 0 e l’1 per cento grazie all’elevato grado di affidabilità. Oggi lo stesso paese paga quasi il 2,7 per cento sul bund a 10 anni. La significativa spesa fiscale messa in programma, che pure dovrebbe stimolare la crescita economica, ha un prezzo: la Germania lo pagherà con un costo del suo debito più elevato e questo accorcia la distanza dello spread, con l’Italia che dal canto suo è diventata più virtuosa”. La lezione è sempre la stessa per tutti: nessun pasto è gratis.

Titubanze europee