
Continuità con la Fininvest di Silvio Berlusconi ma non fotocopia per i figli Marina e Pier Silvio (foto Getty)
E la Figlinvest va. La felice transizione di Marina e Pier Silvio
Calcio addio, Mediolanum è solida, Mondadori e Mediaset evolvono. La politica sullo sfondo. Per la Fininvest, i ricavi dello scorso anno hanno sfiorato i 4 miliardi di euro con un aumento del 3 per cento. Sono aumentati anche i dipendenti
Monza addio, l’ultima passione sportiva di papà Silvio, lasciata all’amico Adriano Galliani, è costata ben 240 milioni di euro in soli sei anni. Ora che la squadra è stata venduta al fondo americano Blv (Beckett Layne Venture), non peserà più sul bilancio e la Fininvest, libera anche di questa zavorra, potrà concentrarsi sui suoi mestieri fondamentali. Marina e Pier Silvio vanno avanti lungo la strada aperta dall’augusto genitore, ma lo fanno tenendo conto dei tempi cambiati e delle loro stesse personalità. La successione in casa Berlusconi non nasconde i veleni che hanno intossicato altre famiglie del capitalismo italiano, dai conflitti in casa Agnelli degni di una tragedia greca, all’ultima guerricciola aperta tra gli eredi di Leonardo Del Vecchio. Continuità, dunque, ma non fotocopia. La Fininvest che si presenta più moderna, più internazionale, più competitiva, sta diventando Figlinvest, come dice qualcuno con un facile giro di parole. I ricavi lo scorso anno hanno sfiorato i 4 miliardi di euro con un aumento del 3 per cento anche se il margine operativo lordo è sceso dell’1,9 per cento a 843 milioni. In ogni caso il risultato finale è in crescita (+5,5 per cento a 280 milioni) e ai soci sono andati 100 milioni di euro, tutti in famiglia a seconda delle quote di ciascuno (53 per cento a Marina e Pier Silvio, il 47 per cento ai tre fratelli più giovani). Sui conti hanno pesato la svalutazione del Monza e la donazione alla Fondazione Doris che faceva parte del testamento di Silvio Berlusconi. Senza questi oneri straordinari l’utile sarebbe cresciuto del 30 per cento. Sono aumentati anche i dipendenti, arrivati a 17 mila 877.
Stiamo parlando di affari, ma ha colpito gli osservatori il modo in cui i fratelli hanno preso in mano anche l’eredità politica, per molti versi la più spinosa. Lasciamo per un po’ in standby questo versante scivoloso, anche perché tutti i segnali mostrano che, nonostante il gran parlare, una “discesa in campo”, ora di Marina ora di Pier Silvio, sembra quanto meno prematura. La loro attenzione è concentrata sulle tre gambe principali: la televisione con Mediaset, l’editoria con Mondadori e la banca con la partecipazione in Mediolanum. Quest’ultima in particolare va come un treno. Fininvest possiede il 30 per cento, mentre il 40 per cento appartiene alla famiglia del fondatore Ennio Doris (il figlio primogenito Massimo è amministratore delegato). La sua solidità non è davvero in discussione. Il rapporto tra il capitale della banca e le attività ponderate per il fattore rischio è del 23 per cento, uno dei più alti in assoluto, molto più del livello ottimale indicato dalla Banca centrale europea. Nella classifica delle agenzie di rating è in serie A, anzi ha la doppia A. Nell’ultimo anno, le azioni di Banca Mediolanum sono state scambiate in una fascia di prezzo compresa tra 10,74 e 17,66 euro, con una capitalizzazione di oltre 12 miliardi, poca rispetto ai 100 e rotti miliardi di Unicredit, ma non è un’azienda di credito come tutte le altre, è una banca multicanale che opera attraverso una rete commerciale composta da circa 4.300 consulenti finanziari. Non ha sportelli, non li ha mai avuti, non ha bancari in senso tradizionale. C’è un rapporto diretto con i clienti che affidano i propri risparmi e vogliono metterli a frutto. Un modello che quando venne lanciato era assolutamente innovativo in Italia e adesso sta diventando la nuova frontiera nella gestione della ricchezza. La sua nascita ha il sapore dell’epopea all’americana.
Nel numero di maggio del 1981 il mensile Capital, edito allora dalla Rizzoli, pubblica una lunga intervista a Silvio Berlusconi, l’immobiliarista che si era lanciato nella tv con Canale 5. “Se qualcuno ha un’idea e vuole diventare imprenditore, mi venga a trovare”, proclama, e promette: “Se l’idea è buona ci lavoriamo insieme”. Doris l’idea ce l’ha e in un incontro che si vuole casuale o casualmente ricercato a Portofino, illustra il suo progetto e convince il rampante imprenditore a parteciparvi. Nel febbraio del 1982 nasce la società Programma Italia, la prima rete ad offrire consulenza globale nel settore del risparmio, posseduta pariteticamente dalla Fininvest e da Doris. La ragnatela di promotori cresce rapidamente, come pure il fatturato dell’azienda che nel 1994 muta la propria denominazione sociale in Mediolanum S.p.A che due anni dopo viene quotata alla borsa di Milano; nel 1999 entra nel “salotto buono” comprando un pacchetto della Mediobanca, il 2 per cento diventato 3,5 per cento e venduto il primo luglio scorso. Massimo Doris è rimasto fedele fino agli sgoccioli, ma si è tenuto fuori dal risiko che avvelena la finanza italiana.
Mondadori, ceduti i periodici, si concentra sui libri. L’ad Porro ha ammesso le vendite in calo, ma si è detto “ottimista per il secondo semestre”
Mondadori, ceduti i periodici, si concentra sui libri. Dopo l’acquisizione della Rizzoli, anche se deve cedere Bompiani e Marsilio è senza rivali la numero uno con Einaudi, Fabbri, Piemme, Electa, Sperling & Kupfer, Frassinelli, De Agostini. Il mercato è difficile, affollato dal lato dell’offerta e sempre più ristretto da quello della domanda. Anche il primo semestre dell’anno è andato male: inaugurando la rinnovata libreria Rizzoli in galleria a Milano, Antonio Porro, amministratore delegato del gruppo, ha ammesso le vendite in calo, ma si è detto “ottimista per il secondo semestre”, intanto è stato avviato un giro di poltrone con una riorganizzazione interna. La società editoriale ha terminato i primi sei mesi dell’esercizio con ricavi per 389,5 milioni di euro, in aumento dello 0,6 per cento rispetto ai 387,2 milioni ottenuti nel 1° semestre dell’anno precedente; Mondadori ha chiuso con un utile netto di 3,5 milioni di euro, rispetto ai 7,1 milioni contabilizzati nello stesso periodo del 2024, a causa dei maggiori ammortamenti. Una volta neutralizzate le componenti straordinarie, l’utile risale a 7,6 milioni di euro.
In un’intervista al Foglio l’anno scorso, Marina ha rivelato più ampiamente che mai la sua visione delle cose e le sue convinzioni politiche. Da liberale è allarmata non solo, ovviamente, dalla minaccia dei regimi autocratici, ma dal pendolo politico che in occidente oscilla sempre più verso posizioni estremiste a destra e a sinistra. A cominciare dagli Stati Uniti: “Spero davvero che il paese che è sempre stato il principale garante dell’Occidente non abbia ora un presidente che ambisce a diventare lui il ‘rottamatore’ dell’Occidente stesso”. E’ contro i dazi “da sostenitrice del libero mercato”, ma è preoccupata anche dai signori di Big Tech: “Nella storia dell’umanità non si era mai assistito a una simile concentrazione di potere, ricchezza e interessi nelle mani di pochi soggetti”.
Tirata per la giacchetta affinché entri apertamente in politica, si è impegnata in una politica culturale dall’impronta chiarissima con la Silvio Berlusconi editore lanciata come gruppo Mondadori: autori apertamente liberali e liberisti come l’economista Deirdre McCloskey, oppositori di Vladimir Putin come lo storico Alexander Baunov. Si proclama “assolutamente antifascista, così come sono assolutamente anticomunista”. Ma insiste che il suo mestiere è l’editore e vuole continuare a farlo. Al direttore del Foglio mostra un’intervista rilasciata dal padre nel 1985: “Una televisione per l’Europa, per tutti i popoli dell’Europa, un unico programma, trasmesso in quattro lingue, capace di raggiungere contemporaneamente una popolazione di oltre 250 milioni di persone consentendo loro di riconoscersi in comuni radici di civiltà, di cultura, di gusto. Per ora è una grande avventura, un grande rischio. Un’utopia affascinante cui è difficile sottrarsi”. Così diceva il Cavaliere. E’ l’utopia che “Figlinvest” vuol rendere concreta.
La tv è il campo di Pier Silvio che ha messo a segno due successi: il sorpasso della Rai e la piena acquisizione della rete bavarese ProSiebenSat.1 la seconda in Germania per numero di famiglie raggiunte. L’estate italiana ha visto una vera e propria rivoluzione sui teleschermi. Niente più repliche e programmi naftalina. Pier Silvio ha deciso di osare, puntando su volti noti, format storici e contenuti originali perché la tv generalista può (e deve) essere protagonista tutto l’anno. La decisione simbolica è l’addio a Paperissima Sprint, appuntamento che per anni ha rappresentato la colonna sonora dell’estate televisiva Mediaset. Allo stesso modo, spariscono le repliche degli spettacoli di giochi nel weekend. A guidare la svolta è La Ruota della Fortuna tornata alla collaudata conduzione di Gerry Scotti che batte Affari tuoi della Rai rimasta indietro anche nell’informazione, con il TG5 che ha superato il TG1. Si calcola che la tv di stato abbia perso pubblicità per 15 milioni di euro in pubblicità.
I talk show che tanto infiammano il circo politico-mediatico, Mediaset li ha concentrati in Rete 4, La politica tende a essere collocata in un nocciolo duro, ma piccolo e non centrale. E’ una tendenza generale basti guardare a La7 di Urbano Cairo che sta assorbendo dalla Rai, a costo zero, quasi tutta quella che veniva chiamata un tempo Telekabul. Retequattro a destra, La7 a sinistra, la Rai come “voce del padrone” cioè del governo che la possiede e la gestisce di fatto scegliendo gli uomini e i programmi. Oggi a destra, domani a sinistra, a seconda di come oscilla il pendolo del quale parlava Marina Berlusconi. Quando Ted Turner decise di fondare la sua televisione, proclamò con sussiego che si sarebbe tenuto lontano dall’informazione che ha sempre odorato di politica, perché la tv, così diceva, si fa con l’intrattenimento. Poi è finito a fare la Cnn. Chissà quale ironia la storia conserva per la Rai; intanto perde colpi, e a ripetizione.
Ormai la strategia è Mfe, Mediaset for Europe. “Non vogliamo comprare una tv in Germania o in altri paesi, ma unire le forze come fatto in Spagna”
La strategia lanciata da Mediaset che ormai è stata ribattezzata Mfe (Mediaset for Europe) vuol essere un’alternativa agli orticelli nazionali, quelli coltivati dalla Rai e dalle sue cugine d’oltralpe. Riuscirà? Respinta la scalata di Vincent Bolloré che avrebbe voluto realizzarla mettendo insieme Mediaset e Vivendi, la campagna d’Europa è stata riproposta in modo diverso. Nell’annuale incontro estivo con i giornalisti, Pier Silvio ha spiegato le sue intenzioni. Per uscire dalla morsa della crisi economica e dall’assalto dei Big Tech digitali, Mediaset vuole diventare un “broadcaster europeo”. E l’acquisizione di ProSiebenSat è un passo importante. “Non vogliamo comprare una tv in Germania o in altri paesi, ma unire le forze come fatto in Spagna per creare sinergie a livello di costo, con efficienze che ti permettono di investire capitali, e a livello tecnologico che è importantissimo” sottolinea Pier Silvio e a chi gli chiede se pensa a un socio replica: “Non ci dispiacerebbe, ma noi vorremmo la possibilità di influenzare e indirizzare il nostro progetto”.
Il 16 settembre scorso Mfe celebra il suo successo: il 75 per cento delle azioni passa di mano, ma nello stesso giorno ProSiebenSat taglia le stime e ammette le proprie debolezze: ricavi attesi tra 3,65 e 3,8 miliardi, in calo dai 3,85 miliardi indicati in precedenza; il margine operativo lordo è stimato tra 420 e 470 milioni, ben al di sotto dei 520 milioni inizialmente messi sul tavolo. Il cuore del problema è la pubblicità. Settembre si sta rivelando più debole delle attese, e anche le prime indicazioni per ottobre confermano la tendenza negativa. Molti si sono chiesti se Pier Silvio ha scelto il partner giusto, ma la Germania è strategica anche per l’editoria e i media. La stampa tedesca ha condotto una campagna anti-Berlusconi all’insegna di tale padre tale figlio. Quella della Frankfurter Allgemeine Zeitung è stata la voce più autorevole e più critica evocando lo spirito, anzi lo spettro, del Cavaliere, il fantasma politico naturalmente, ma anche quello di una tv sguaiata e licenziosa, considerata poco più che spazzatura anche in un paese che prima ancora dell’Italia ha aperto le porte alle tv commerciali comprese quelle delle due esse, soldi e sesso.
Le difficoltà della rete bavarese da un lato e i chiarimenti offerti da Mfe sulla governance assicurando che non ci sarà nessuna velleità di colonizzazione, hanno smussato i contrasti e rivalutato il piano di Pier Silvio. Il muro di Berlino, il muro politico-mediatico, è caduto. Non sono tutte rose e fiori, il mercato televisivo è l’arena di una giostra medievale. “La Spagna è faticosissima – ha ammesso Pier Silvio – Abbiamo un bel meno davanti, anche se non a due cifre. L’Italia invece fa davvero bene e siamo in linea rispetto all’anno precedente”. L’andamento della pubblicità è positivo: in sei mesi la raccolta del gruppo è cresciuta più della media del mercato.
Le convinzioni liberali di Marina e le critiche di Pier Silvio a Tajani, la moral suasion su Forza Italia e l’azienda-partito che ora conta di più
Il nascente polo paneuropeo ha numeri davvero significativi: 6,9 miliardi di ricavi pro-forma; margine operativo di 2,3 miliardi (1 miliardo post diritti tv); debito netto balzato per Mfe a 2,5 miliardi ma con una leva a 1,09 volte il margine operativo lordo, livello considerato pienamente sostenibile; sinergie fino a 315 milioni di utile entro quattro anni (che potrebbero salire a 419 milioni in caso di piena integrazione). L’organico supera le 12.300 persone, distribuite in Italia, Germania, Spagna e Svizzera, con un bacino potenziale di oltre 200 milioni di spettatori. Prossima tappa il Portogallo con il gruppo Impresa che possiede anche un canale generalista.
E la politica italiana? L’abbiamo lasciata in attesa, ma non c’è dubbio che la domanda ha bisogno di una risposta. Marina ha criticato le posizioni illiberali della destra su diritti e costumi, ma ha apprezzato la stabilità del governo. Pier Silvio ha apertamente espresso il suo scontento per come Tajani gestisce Forza Italia, al di sotto delle potenzialità politiche, con una scolorita rappresentazione di partito liberale e tendenzialmente centrista. Nessuno dubita che i due fratelli continueranno a esercitare una influenza determinante, e non solo una moral suasion dall’esterno, sul partito-azienda creato dal Cavaliere. Ma i più ritengono che per il momento conti soprattutto l’azienda-partito, la macchina da soldi. Nel lontano 1996 Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, il partito uscito dalle ceneri del Pci, definì Mediaset “un patrimonio del paese”, suscitando le ire di quella sinistra che considerava invece l’Italia sempre più un patrimonio di Berlusconi. Ebbene oggi Figlinvest intende rilanciare la definizione di D’Alema, ma per diventare un patrimonio dell’Europa. Vasto programma, non c’è che dire.


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