l'editoriale del direttore

Il risiko bancario fa bene all'Italia

Claudio Cerasa

La spinta della politica è stata davvero un guaio per le banche? I numeri dicono il contrario. Il futuro di Mediobanca, la fase due di Generali, il terzo polo, il Mef pronto a uscire da Mps. Un nuovo mosaico: spunti e notizie

Il prossimo 3 ottobre, il risiko bancario, quel formidabile gioco di potere e di capitali che ha riscritto le coordinate del sistema finanziario italiano, arriverà a un passaggio importante, che coinciderà con la certificazione di un’epoca che finisce e di una che comincia. Il 3 ottobre, Mediobanca avrà una nuovo guida. E insieme alla nuova guida, ad avere di fatto le leve del potere finanziario di Piazzetta Cuccia sarà prima di chiunque altro la coppia formata da Francesco Milleri e Francesco Gaetano Caltagirone. Milleri e Caltagirone, via Monte dei Paschi di Siena, hanno conquistato Mediobanca, ponendo fine alla stagione di Alberto Nagel, e lo hanno fatto grazie all’iniziativa dell’amministratore delegato di Mps, Luigi Lovaglio, e grazie al via libera, che è stato molto più di un via libera, del governo italiano, azionista di Mps, che ha lavorato di fino, per così dire, per agevolare la scalata di Siena, di cui Milleri e Caltagirone sono soci pesanti. Questo giornale ha scritto in diverse occasioni che la spinta data dal governo all’operazione di Mps è oggettiva, non è negabile, e solo un osservatore in malafede potrebbe negare che nella partita di Mediobanca non vi sia (anche) lo zampino della politica.

 

Ma quello che solo chi è in malafede può negare riguarda l’effetto che, come abbiamo già avuto modo di scrivere, ha avuto l’azione della politica nel risiko bancario. E il fatto che la spinta abbia creato un effetto tutto sommato virtuoso, a voler essere generosi, o non nocivo, a voler essere meno generosi, è testimoniato da un numero che anche chi considera la presenza dello stato come il male assoluto, nel mercato, dovrebbe tenere a mente. Quel numero è relativo alla crescita azionaria dei titoli bancari, che dall’inizio del 2025 a oggi sono cresciuti, in Borsa, più di quanto mediamente è cresciuta la stessa Borsa (da inizio 2025 a oggi, le azioni delle prime dieci banche italiane sono aumentate del 40,6 per cento, le azioni della Borsa italiana sono aumentate del 25 per cento). Il governo ci ha messo lo zampino, non c’è dubbio, e ha messo lo zampino in Mediobanca perché Mediobanca è il primo azionista di Generali, perché con un cambio di guida in Mediobanca il governo sperava che l’operazione molto contestata fatta da Generali su Natixis potesse essere congelata, cosa che è accaduta, e perché si augurava che Generali, che insieme a Intesa Sanpaolo è una delle casseforti private dei titoli di stato italiani più importanti, potesse essere abbracciata da capitali italiani, cosa che è successa.

     
Ma la dimostrazione del fatto che l’operazione di Mediobanca è stata, come questo giornale auspicava, anche un passaggio attraverso il quale dare un futuro certo a Mps, una banca che la politica ha prima spolpato e poi risanato, è dimostrato da una notizia che il Foglio può anticipare: l’uscita, entro un anno, dello stato, dal capitale di Mps e dunque di Mediobanca (attualmente il Mef è all’11 per cento di Mps, dopo l’Ops su Mediobanca la quota si diluirà e scenderà tra il 4 e il 5 per cento). Sulle privatizzazioni, è vero, il governo ha promesso molto e poi combinato poco, e tranne una vendita, per fare cassa, di una piccola quota di Eni, le due grandi operazioni immaginate nel 2022, nella legge di Bilancio, sono state congelate. Una era la privatizzazione totale di Ferrovie dello stato, di cui si sono perse le tracce, ma non le speranze, e l’altra era la privatizzazione di una quota ulteriore di Poste, che si è interrotta. Nel frattempo Poste Italiane si è impegnata in altre operazioni molto importanti, che oggi la vedono come socio forte di Tim (Poste, nel medio termine, potrebbe avere ancora più azioni rispetto a oggi di Tim se davvero dovesse cederle il prossimo anno il braccio di Poste Mobile, ricevendo in cambio azioni Tim, ma sempre con l’accortezza di restare sotto la soglia dell’Opa obbligatoria). Sull’uscita dello stato dai gioielli di cui è azionista non si può mettere la mano sul fuoco, lo sappiamo. Ma se il piano prenderà forma si potrebbe dire che la politica, sulla partita del risiko, ha fatto bene il suo lavoro: ha smosso le acque, ha dato una spinta al mercato, ha contribuito a far crescere il valore delle azioni del comparto, ha messo in campo un’operazione reale di consolidamento bancario e ha dato a Mps un futuro più lontano dalla politica e più vicino al mercato. Il primo tempo del risiko bancario si concluderà dunque il 3 ottobre, con il successore di Nagel, indicato nella persona di Alessandro Melzi d’Eril. Ma dopo un intervallo inevitabile, che vedremo quanto durerà, vi saranno altre pedine che si andranno a muovere, e che vale la pena di inquadrare. La partita di Generali, quella che vedrà un cambio di governance e anche di amministratore delegato, si giocherà il prossimo anno, senza fretta ma senza nemmeno aspettare troppo, e prima di quella partita gli incastri da valutare sono almeno tre. Il primo incastro potrebbe collegarsi alla partita di Mediobanca – Mediobanca che i nuovi azionisti sono fortemente intenzionati a non far confluire tramite fusione in Mps (se il flottante dovesse essere inferiore alla soglia oltre la quale la fusione diventerebbe quasi automatica, gli azionisti di Mediobanca sarebbero pronti a vendere la quota in eccedenza). La partita, in questo caso, ha a che fare con Bpm. E se Unicredit dovesse rinunciare a tornare sul Banco di Milano (cosa a cui il governo non crede), la strada per Bpm non sarebbe quella di un’operazione di crescita attraverso il canale francese (Crédit Agricole ha dato garanzie in merito anche al Mef: si sale, sì, ma niente Ops). Ma sarebbe quella – anche se molto difficile – del consolidamento ulteriore del terzo polo, che in politica funziona così così ma che nel mondo bancario inizia a prendere forma come mai prima d’ora (l’ultimo tentativo fu nel 2007 di Mps, sempre lei, con Antonveneta, ai tempi di Mario Draghi a Bankitalia, e l’operazione fu un disastro). La strada dunque, nel caso di un non intervento di Unicredit, è quella di Mediobanca, e sotto un’unica alleanza la capitalizzazione di Mediobanca, Mps e Bpm raggiungerebbe una quota interessante (circa 52 miliardi di euro, la metà di Unicredit). Nella girandola impazzita della seconda fase del risiko, la grande domanda che molti osservatori si fanno è cosa succederà in Generali e cosa farà Intesa Sanpaolo. In Generali, è notizia di pochi giorni fa, Unicredit, che secondo molti potrebbe fare un tentativo per replicare con Banca Generali l’operazione di acquisizione tentata da Alberto Nagel negli ultimi mesi a Mediobanca, ha venduto la partecipazione che aveva da poco acquistato e le banche d’affari scommettono su uno scenario che i diretti interessati negano fortemente: nel nuovo corso di Generali, accanto agli azionisti forti, Caltagirone e Milleri, sarebbe uno scandalo se ci fosse anche Intesa Sanpaolo, che tutto sommato non ha mai considerato le operazioni di Caltagirone e Milleri contro Nagel come se queste fossero viziate da lesa maestà, cosa che in verità in pochi hanno fatto in questi mesi nella finanza milanese? Difficile immaginare quale sarà l’esito della seconda fase del risiko. Difficile immaginare se la guida che verrà scelta per Generali corrisponderà davvero alla figura di un attuale importante manager di una partecipata di stato o a un italiano alla guida di un colosso assicurativo europeo. Difficile fare previsioni sul futuro. Ma è impossibile dire che se il risultato del risiko bancario sarà quello di avere una Mediobanca in cui i capitali contano più delle relazioni, una Mps in cui lo stato conta sempre meno, un mercato azionario in cui le banche valgono sempre di più, un consolidamento che porta un valore aggiunto al mercato, una Generali ancora più performante. Tutto si potrà dire, tranne che aver dato il via al risiko, da parte della politica, sia stato quello che si dice oggi: un disastro, un’eresia, una ferita al mercato. Lo dice la logica. Ma in fondo lo dicono anche i numeri. Viva il risiko! 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.