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l'analisi
I veri contratti pirata che fanno male all'Italia. I dati di Confcommercio
Gli accordi siglati da sigle minori penalizzano 160 mila lavoratori con stipendi più bassi e meno tutele. Nel 2024 persi 553 milioni di gettito fiscale e 1,3 miliardi di salari. La denuncia di Confcommercio
Capita sempre più spesso di entrare in un negozio, centro commerciale, outlet, albergo, e vedere commessi e impiegati stanchi e demotivati, spesso molto giovani, a volte stremati da turni di 45-48 ore settimanali. A garantire a noi tutti la crescente accessibilità a servizi, ad acquisti e a svaghi fino a tarda sera, domeniche e festività comprese, è stata una certa libertà sindacale che in questo settore ha sempre attecchito più che in altri in un’Italia che voleva liberarsi dall’eredità delle corporazioni. Ma qualcosa non sta funzionando e il crescendo di flessibilità fuori controllo ha creato una distorsione a livello di sistema che la Confcommercio ha deciso di denunciare chiedendo al governo Meloni “un impegno concreto” per combatterlo. “Guardiamo con preoccupazione al fenomeno del dumping contrattuale – dice il presidente Carlo Sangalli – che sta assumendo proporzioni sempre maggiori soprattutto in alcune aree del paese, che mina le regole della concorrenza, svaluta il lavoro e crea disparità tra imprese e tra lavoratori”. Secondo i dati elaborati dall’ufficio studi di Confcommercio, “i contratti pirata”, secondo una definizione che l’associazione ha scelto di adottare non tanto per esigenze di semplificazione ma proprio perché riflette un giudizio di merito, non solo generano una minore retribuzione lorda annuale per ciascun lavoratore di circa 8 mila euro ma hanno un impatto diretto sul bilancio pubblico con 553 milioni di gettito fiscale perso nel solo 2024.
Lo scorso anno, su 4,5 milioni di addetti complessivi nel terziario e nel turismo, 156mila lavoratori risultano assunti con contratti caratterizzati da minori tutele e salari sensibilmente più bassi rispetto ai contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) firmati dalle organizzazioni “maggiormente rappresentative” (quello della Confcommercio è il più applicato con circa 2,5 milioni di addetti). Si sta parlando di una retribuzione lorda annua media di 24.600 euro che diventano 16-18 mila con i contratti pirata, il che vuol dire 1,3 miliardi di stipendi in meno. Il fatto è che Italia sono depositati presso il Cnel oltre mille tipologie di contratti collettivi nazionali di lavoro, ma solo una parte è sottoscritta da organizzazioni “realmente rappresentative”. Negli ultimi tempi è stato registrato un boom dei contratti pirata (più 141,7 per cento nel 2024 rispetto al 2023) firmati, appunto, da sigle minori: sono oltre 200 e riguardano circa 160 mila dipendenti e oltre 21 mila aziende. Secondo il rapporto di Confcommercio, il fenomeno – in costante crescita soprattutto tra le micro-imprese e le cooperative – è diffuso proprio nel terziario e nel turismo, settori strategici per l'economia e per l'occupazione, e si concentra nel Mezzogiorno. Le regioni più colpite sono Calabria, Sicilia, Campania e la Puglia.
Quello che fa osservare Confcommercio è che il ricorso a questi contratti con minori tutele – che in alcuni casi azzerano ogni forma di welfare e di meccanismi di compensazione rispetto ad orari di lavoro infiniti – non rafforzano le economie e territori soprattutto nei contesti più fragili, ma finisce per indebolirli: abbassa la produttività, riduce il potere d'acquisto dei lavoratori e accentua gli squilibri territoriali dando vita a un circolo vizioso. ''Mettere in discussione il contratto nazionale che noi sottoscriviamo – , spiega il segretario generale di Confcommercio Marco Barbieri – vuol dire mettere in difficoltà l’economia del paese e la sua colonna portante che sono le piccole e medie imprese del terziario e del turismo. Ma anche mettere in difficoltà i lavoratori, che sono anche consumatori, cioè coloro che rilanciano la domanda interna dell’Italia che è ancora stagnante”. Quando poi si parla di mancato gettito per le casse dello stato, questo dovrebbe far riflettere, aggiunge Barbieri. “Specialmente in occasione delle prossime scadenze del governo, come la legge di bilancio”, Un’osservazione basata su un conto della serva ma molto efficace: “553 milioni di gettito fiscale in più potrebbero essere utili, di questi tempi, per abbattere l’aliquota Irpef di altre categorie di lavoratori rendendo allo stesso tempo più tutelati gli addetti del terziario”. Come dargli torto?