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Lo scenario

Le crisi del grano duro sono cicliche, serve una strategia per il futuro

Giuseppe L'Abbate

Tra le priorità c’è anche la ricerca. È necessario sviluppare varietà più resistenti e competitive, fondamentali per il futuro della cerealicoltura. La vera sfida riguarda il modello produttivo: occorre più aggregazione, cooperazione e programmazione dei raccolti

La manifestazione di venerdì scorso di Coldiretti testimonia un disagio reale: il prezzo del grano duro è crollato a livelli insostenibili e gli agricoltori chiedono risposte. Ma queste crisi non sono un’eccezione, bensì un fenomeno che si ripete ogni 4-8 anni. La causa è l’aumento delle superfici seminate dopo periodi di prezzi alti e raccolti favorevoli. E’ il “teorema della ragnatela”: dopo i picchi arrivano inevitabilmente i crolli. Il governo non può cambiare le regole del mercato mondiale. Il grano è una commodity: il prezzo si forma su scala globale, condizionato dai raccolti in Canada, Stati Uniti, Francia o Australia. Inoltre, il grano duro è un cereale di nicchia, poco più del 5 per cento della produzione complessiva, e per questo il mercato è molto sensibile alle oscillazioni. E’ illusorio pensare che bastino decreti o fondi d’urgenza a invertire il ciclo.

 

In Italia si producono mediamente 3,7 milioni di tonnellate di grano duro, mentre i pastifici ne richiedono 5,8 milioni. Ogni anno dobbiamo importarne circa 2 milioni. Importare, però, non significa far crollare i prezzi: è indispensabile per coprire il fabbisogno e garantire continuità. E basta con lo spauracchio del glifosate: in Nord America viene talvolta usato per maturare il grano, ma sulle nostre tavole non arrivano residui grazie a norme europee tra le più restrittive al mondo.

 

La politica non è impotente. Negli ultimi mesi si è dato seguito a due leggi che ho contribuito ad approvare. La prima ha istituito le Commissioni Uniche Nazionali (Cun), strumenti fondamentali per la trasparenza: grazie all’impegno del Sottosegretario Patrizio La Pietra è partita la Cun sperimentale e, come annunciato dal Ministro Lollobrigida, da gennaio sarà operativa quella effettiva. La seconda ha creato Granaio Italia, anch’esso avviato con il contributo del Sottosegretario La Pietra e della Senatrice Nocco, per monitorare il grano coltivato, importato e trasformato in Italia. Senza trasparenza e monitoraggio non c’è programmazione. Tra le priorità c’è anche la ricerca. È necessario sviluppare varietà più resistenti e competitive, fondamentali per il futuro della cerealicoltura. La vera sfida riguarda il modello produttivo. Oggi meno del 10 per cento del grano duro italiano è venduto tramite contratti di filiera. È troppo poco. Occorre più aggregazione, cooperazione e programmazione dei raccolti. La gestione associata in cooperative o OP, per pianificare la produzione in funzione delle esigenze del mercato, è la strategia migliore.

 

Un altro nodo è la differenziazione degli stoccaggi. In Italia si mescolano partite di qualità diversa, annullando il valore delle eccellenze. Paesi come Canada e Stati Uniti classificano il grano per proteine e qualità del glutine, premiando chi produce meglio. L’Italia non può restare indietro: serve un sistema di classificazione e valorizzazione dei grani di qualità superiore. Infine, la ricerca deve tradursi in pratiche agronomiche: rotazioni con leguminose, sementi certificate, monitoraggi fitosanitari e strumenti assicurativi moderni. Solo così si rafforza il settore senza chiedere al mercato ciò che non può dare. La politica deve fare la sua parte – e il governo lo ha iniziato a fare – ma serve anche la responsabilità degli agricoltori. Non basta protestare: bisogna cambiare modello. Solo così una crisi ciclica potrà diventare occasione di crescita strutturale per la cerealicoltura italiana e per il made in Italy della pasta.

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