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I numeri

Il commercio americano mostra i segnali che Trump non voleva vedere

Davide Mattone

I nuovi dati Ocse registrano un declino nel commercio nel II trimestre del 2025 a fronte di un grande sprint nel I. Negli Usa l'inflazione sale, e si producono meno posti di lavoro. Intanto la Fed è incastrata nel suo doppio mandato (stabilità della moneta e occupazione)

I dazi imposti dagli Stati Uniti fanno tremare il commercio globale: quello che all’inizio del 2025 sembrava un boom di importazioni è stato invece un fuoco di paglia. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ocse (Interim Economic Outlook) sull’andamento internazionale, lo sprint dell’economia mondiale nei primi mesi del 2025 è stata una fiammata temporanea alimentata dal front loading (l’anticipo delle spedizioni negli Stati Uniti per evitare i dazi) e dai grandi investimenti legati all’intelligenza artificiale. Esaurito questo effetto, l’export è tornato a rallentare, come segnalato dal raffreddamento degli indicatori ad alta frequenza (container portuali, voli cargo).

Da maggio l’aliquota media dei beni in arrivo negli Usa ha continuato a salire fino al 19,5 per cento registrato ad agosto: il livello più alto dal 1933, con tariffe doganali del 50 per cento su acciaio e alluminio. Solo alcune intese bilaterali con l’Ue o il Giappone hanno attenuato gli effetti dei dazi su determinate voci. Mentre paesi come Cina, Brasile e India sono tra quelli maggiormente colpiti dall’aumento dei dazi.

E le prospettive globali non sono rosee. L’Ocse ha infatti rivisto le previsioni di crescita: secondo l’organizzazione, la crescita del pil globale passerà dal 3,3 per cento del 2024 al 3,2 per cento nel 2025, e al 2,9 per cento nel 2026. Il calo è in gran parte attribuibile ai dazi, che frenano investimenti e commercio e alimentano incertezze e costi delle catene di fornitura. 

Sia l’Ocse che l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) avvertono che il colpo più duro deve ancora arrivare. Secondo i dati del Wto pubblicati ad agosto, le importazioni statunitensi sono cresciute del 14 per cento nel primo trimestre 2025 a causa del front loading, e sono poi crollate del 16 per cento nel trimestre successivo. Le esportazioni di Canada e America Latina hanno rallentato, e gli scambi fra Washington e Pechino si sono contratti nettamente.

Per l’Italia, il quadro è preoccupante ma non drammatico. Secondo l’Ocse, per l’Italia il pil resterà inchiodato allo 0,6 per cento e l’inflazione resterà sotto al 2 per cento anche nel 2026. Il governo Meloni considera sostenibile una soglia del 15 per cento dei dazi, ma variabili come la svalutazione del dollaro potrebbero amplificare l’impatto reale dei dazi.

Non solo. Il report dell’Ocse suggerisce che i dazi stanno già influenzando le scelte di spesa e i mercati del lavoro: ad agosto negli Stati Uniti sono stati creati solo 22 mila posti, ben al di sotto delle attese. In questo contesto la Fed, incastrata nella logica del suo doppio mandato – il dovere di rallentare la domanda per frenare i prezzi e la necessità di sostenere l’attività economica – sta iniziando a ridurre i tassi. Ma l’Ocse prevede che l’inflazione statunitense potrebbe toccare il 3 per cento nel 2026, con una trasmissione graduale dei dazi ai prezzi al consumo.

Al contrario delle aspettative della Casa Bianca, i dazi non stanno rilanciando il made in America e nemmeno l’economia americana. Nonostante ciò, il dibattito è sugli effetti dei dazi è aperto: a  giugno 2025 le dogane americane hanno incassato circa 26,6 miliardi (quattro volte l’anno prima), e oltre 108 miliardi nei primi nove mesi dell’anno fiscale (ottobre-giugno) e circa 165 miliardi cumulati a fine agosto. Il Congresso stima che le misure tra gennaio e maggio ridurranno il deficit di 2,8 trilioni in dieci anni. 

L’alternativa indicata dall’Ocse è la cooperazione: bisogna lavorare per mitigare l’incertezza che grava sui mercati. Se le barriere resteranno alte, la crescita mondiale ne risentirà e le nostre economie diventeranno più vulnerabili. Costruire ponti (come l’accordo Ue-Mercosur) invece di muri, è l’unica strategia per evitare una prolungata crisi del commercio globale.

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