
La notizia
Ecco il piano del governo per abbassare il costo dell'energia alle imprese
Palazzo Chigi studia come utilizzare alcuni impianti rinnovabili a fine incentivi per raffreddare le bollette. Un’idea che piace sia a Confindustria sia ai produttori, sebbene con alcune differenze di prospettiva
Giorgia Meloni sta lavorando per tagliare le bollette elettriche degli italiani, e in particolare delle imprese. A Palazzo Chigi avrebbero messo a fuoco una soluzione che apparentemente accontenta tutti: utilizzare gli impianti rinnovabili, il cui ciclo di incentivazione sta arrivando al termine, per mettere a disposizione energia a basso costo. L’idea sarebbe sposata sia da Confindustria, sia dai produttori di energia rappresentati da Elettricità Futura, sebbene con alcune differenze di prospettiva. Il punto di partenza è la massa degli impianti a fonti rinnovabili (prevalentemente eolico e fotovoltaico) che sono stati realizzati nel passato, hanno goduto di sussidi estremamente generosi e oggi si avvicinano alla fine della loro vita “regolatoria” ma hanno davanti ancora qualche anno di vita utile. Per quanto riguarda il fotovoltaico, si tratta di una produzione equivalente a circa 20 terawattora (TWh) che percepiscono un incentivo medio di 300 euro/megawattora (MWh) (più il valore di mercato dell’energia) fino al 2032/2033; per quanto riguarda invece l’eolico parliamo di 16 TWh di energia con una tariffa attorno a 140 euro/MWh (comprensiva del valore dell’energia), gli ultimi dei quali arriveranno a scadenza nel 2028.
L’idea attorno a cui si sta ragionando ha due pilastri: da un lato, questi impianti potrebbero siglare contratti di lungo termine con i consumatori, a prezzi calmierati, sulla scorta di altri strumenti già esistenti ma finora non operativi (rispettivamente, la energy release per l’energia elettrica, di cui gli energivori sono insoddisfatti dopo le ultime modifiche imposte dalla Commissione Ue, e la gas release per il gas, che a sua volta potrebbe essere oggetto di miglioramenti per farla finalmente partire). Dall’altro lato, i titolari degli impianti potrebbero ottenere una corsia preferenziale per ottenere l’autorizzazione a svolgere attività di revamping o repowering, sostituendo gli impianti esistenti con altri più moderni ed efficienti. In tal modo, potrebbe aumentare l’energia prodotta a parità di ingombro di suolo, destinandone una parte all’industria e una parte al mercato e consentendo, quindi, agli operatori di sostenere i loro ricavi.
C’è poi un aspetto su cui le versioni divergono: alcuni, infatti, parlano di uno schema volontario, altri di un programma obbligatorio. Nel primo caso, il governo dovrebbe mettere a disposizione una carota sufficientemente attrattiva, sotto forma di semplificazioni per aumentare la potenza installata (un obiettivo comunque utile anche ai fini degli obiettivi europei sulle fonti rinnovabili), lasciando ai produttori la possibilità di vendere la maggiore energia prodotta. Nel secondo caso, sono prevedibili i mal di pancia dei produttori, ai quali comunque verrebbero garantiti ricavi certi per impianti già ampiamente ammortizzati e, dunque, caratterizzati da modesti costi di esercizio.
Il meccanismo potrebbe produrre alcuni costi aggiuntivi, da spalmare sulla restante platea di consumatori. Questi hanno principalmente a che fare col diverso profilo temporale della produzione di energia (che seguirebbe il sole e il vento) e dei consumi (che invece dipendono dai cicli produttivi delle imprese interessate). Questa soluzione avrebbe anche un altro vantaggio, puramente politico ma non per questo privo di valore: prevedendo la cessione dell’energia a un prezzo fisso, indipendente dagli andamenti del mercato, Confindustria potrebbe dire di aver ottenuto il “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia da quelli del gas che chiede da tempo; il governo potrebbe sostenere di averlo realizzato, come più volte promesso da Giorgia Meloni, anche sulla scorta del rapporto Draghi; e l’opposizione, che del disaccoppiamento ha fatto uno slogan ricorrente, non potrebbe opporvisi.